Il latinorum di Scurati
Vi chiedete perché nessuno si fila più gli intellettualoni italiani? Leggete questo libro
Gli intellettuali si lamentano perché non se li fila più nessuno. Deve essere per questo che chiacchierano a ruota libera, che vanno spesso in televisione a fare gli opinionisti e che esigono la foto e lo strillo in prima pagina. Poi raccolgono gli imperdibili testi in volume e fanno scrivere sul risvolto “sguardo lucido e impietoso”, trappola acchiappa-lettore che sta al saggio come “intenso” sta al romanzo.
Gli intellettuali si lamentano perché non se li fila più nessuno. Deve essere per questo che chiacchierano a ruota libera, che vanno spesso in televisione a fare gli opinionisti e che esigono la foto e lo strillo in prima pagina. Poi raccolgono gli imperdibili testi in volume e fanno scrivere sul risvolto “sguardo lucido e impietoso”, trappola acchiappa-lettore che sta al saggio come “intenso” sta al romanzo. Per non lasciare nulla di intentato, Antonio Scurati si autocertifica come “voce abbastanza forte e libera da elevarsi al di sopra del frastuono televisivo”. Magari gli sfugge per un voto il Premio Strega, magari non ha il talento del grande romanziere che vorrebbe essere, ma il dieci e lode in strategie promozionali nessuno glielo può negare.
“Gli anni che non stiamo vivendo” (Bompiani) vorrebbe dimostrare che non possiamo fare a meno degli intellettuali per capire il mondo. E invece svela tragicamente che di certi intellettuali possiamo benissimo fare a meno. Invano cerchiamo un'idea originale, un dettaglio sfuggito alla nostra miopia, una citazione non ovvia e magari interessante: qualcosa che giustifichi il tempo e la fatica spesi nella lettura. Di fatica infatti si tratta, non essendo la prosa scuratiana un modello di chiarezza. Un riassunto dell'incolpevole Roland Barthes – nel capitoletto “Nuovi miti d'oggi” – ficca nella stessa frase “sistema semiologico secondo” e “presenza numinosa”: come farsi strada in un blocco di cemento, e dire che il francese parlava di wrestler, di bistecca con le patatine fritte, di Citroën DS. Voleva farsi capire e ci riusciva – nei “Miti d'oggi” almeno – senza gettar fumo negli occhi con la “psicosi ossidionale” o il “regime scopico”, entrambi traducibili in formule meno ostiche, se appena uno ci prova.
E se appena uno non pensa che il latinorum di Azzeccagarbugli faccia ancora colpo sul popolino, altra parola cara a Scurati. “Eudaimonia del superfluo” bolla la nostra smania consumistica, perché ancora lì siamo: ai persuasori occulti di Vance Packard, che fanno di noi tapini quel che vogliono, e al resto pensa la tv (tranne le trasmissioni, si intende, che ospitano lo scrittore). A furia di parlare difficile, uno finisce per scordarsi le cose semplici. Discorrendo di “Gomorra”, Saviano viene definito reportagista, quando reporter forse basterebbe. La mancanza di un affidabile correttore di bozze fa scivolare nel testo ortografie fantasiose come streaptease, gingle o parole a orecchio come “ittofallico”, che dovrebbe stare per “itifallico”. La mancata lettura di Emilio Gadda produce un meraviglioso “sussumersela”. Le pagine dedicate all'andatura spastica di John McCain ripropongono la solita Grande Domanda: perché gli americani possono godersi il genio di David Foster Wallace, e noi europei – superiori e raffinati – dobbiamo accontentarci di Antonio Scurati?
Il Foglio sportivo - in corpore sano