Grossman e gli altri. Così la morale degli scrittori si mangia la verità su Israele

Giulio Meotti

Gli scrittori israeliani non si sono mai sottratti: hanno sempre commentato la politica. Fanno opinione, non si limitano a scrivere fiction, spesso di politica parlano anche nei loro romanzi, incalzano governi e opinione pubblica. David Grossman è stato il primo scrittore israeliano a esplorare la psicologia palestinese e a descrivere gli effetti deleteri, sugli arabi quanto sugli ebrei, dell'occupazione di Gaza e Cisgiordania.

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    Gli scrittori israeliani non si sono mai sottratti: hanno sempre commentato la politica. Fanno opinione, non si limitano a scrivere fiction, spesso di politica parlano anche nei loro romanzi, incalzano governi e opinione pubblica. David Grossman è stato il primo scrittore israeliano a esplorare la psicologia palestinese e a descrivere gli effetti deleteri, sugli arabi quanto sugli ebrei, dell'occupazione di Gaza e Cisgiordania. Iniziò a farlo durante l'euforia di Oslo, quando si diceva “pace in cambio di terra”.

    Nel frattempo Grossman ha nutrito la memoria dell'Olocausto
    nel bellissimo romanzo “Vedi alla voce amore” e si è battuto per trovare un accordo con i palestinesi. Ma tutto da allora è cambiato e non per colpa dell'occupazione israeliana che a Gaza è finita da un pezzo con le sue serre trasformate in rampe missilistiche. C'è stato l'11 settembre, l'Intifada dei kamikaze, l'Iran. Soprattutto l'Iran. Le marionette libanesi di Teheran avrebbero agguantato anche un figlio di Grossman, Uri, un ragazzo con i capelli rossi come il padre. Ieri Grossman ha scritto su Repubblica sull'operazione israeliana nel mare di Gaza.

    Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare
    “il crimine di Israele”, scrive Grossman mutuando la terminologia da qualche ascaro islamista. Ha riconosciuto che i pacifisti erano emissari di un'“ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele”. Ma nel suo biasimare l'“insicura, confusa e spaventata nazione” che si comporta come “una masnada di pirati”, Grossman ha definito “ignobile” il blocco alla striscia di Gaza e ne ha chiesto la fine, in quanto “prosieguo naturale dell'approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano”, che rende impossibile “la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato prigioniero”.

    E' lecito chiedersi se tutta l'indignazione di Grossman per come è finito il blitz di Gaza, più che una vera preoccupazione non sia un modo per rifugiarsi nella più nobile noncuranza. Ovvero che non sia, anch'essa, una forma di “trahison des clercs” che ha segnato il Novecento e che va dagli intellettuali che “portarono le valige” all'Fln allo chansonnier Jean Paul Sartre, che dopo l'eccidio degli israeliani a Monaco scrisse quest'apologo di Settembre Nero: “La sola arma di cui dispongono i palestinesi è il terrorismo. I poveri e gli oppressi non ne hanno altre. Bisogna uccidere”.

    La morale dello scrittore Grossman è minata
    da una “langue de bois” irresponsabile. Non passa giorno senza che rivolga a Israele un appello alla ragione e non si può che aderire pieni di compassione. Ma è un fatto grave quando la morale di questi scrittori li rende indifferenti al criterio di responsabilità della politica, alla concreta questione della sicurezza esistenziale di uno stato sotto minaccia prenucleare e di una comunità di assediati che cerca di tutelare i suoi villaggi dai razzi sparati da un'organizzazione nemica sostenuta da Iran, Turchia e Siria. Si possono legittimamente criticare i governi israeliani, i loro errori, le loro sordità. E Grossman questo sa farlo benissimo.

    Ma nel riaffermare pigramente lo stanco dogma
    dei “due popoli per due stati”, Grossman non dice l'indicibile per non essere accusato di aver rotto la bolla di sapone dei buoni sentimenti. Ignora così la prospettiva di un conflitto che per i nemici d'Israele può cessare soltanto con la distruzione dell'“entità sionista”, perché l'aspirazione all'indipendenza nazionale di Hamas non esiste: aspira a cancellare gli ebrei dalla carta geografica. La morale dello scrittore israeliano non si cura del dato di realtà, delle sue contraddizioni, del fatto che per Israele la sicurezza è dogma, vita, esistenza, identità e memoria. Grossman è in perfetta sintonia con le emozioni e le ragioni più nobili e rassicuranti dell'opinione pubblica internazionale. Ma è la stessa opinione pubblica che applaude al concetto di stato multietnico e multinazionale e che non vuole che si parli di Israele come di un pegno vivente di un'offensiva della libertà nell'oscurantismo fanatico islamista. Nutrire e ostentare la propria buona coscienza fa bene al cuore.

    Ma uno scrittore israeliano non dovrebbe farlo al prezzo di rinunciare a quel milione di ebrei che oggi vive sotto minaccia dei missili di Hamas, a fare i conti con quella società e con quello stato, con le informazioni dei suoi apparati di sicurezza, con le ansie e la paura della sua opinione pubblica. I rapporti dell'intelligence ci dicono che nella prossima guerra, i missili non cadranno soltanto sui kibbutz del Negev. Arriveranno a Tel Aviv.
    Quando Ariel Sharon andò a stanare i terroristi in Cisgiordania, David Grossman e Amos Oz si recarono in aiuto dei palestinesi nella raccolta delle olive. Ma questa generosità contagiosa non evitò che Hamas, nelle stesse ore, in un insediamento poco lontano, uccidesse due bambine ebree di nome Linoi Sarussi e Hadas Turgeman. La morale fellona degli intellettuali era tutta per Grossman. Nessuno si curò di un paio di orsacchiotti insanguinati.

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.