Tra le tigri dell'Anatolia
Il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, è volato in Grecia la scorsa settimana per un incontro con il collega di Atene, George Papandreou. Insieme hanno firmato ventuno accordi che coprono ogni settore dell'economia, dall'industria al turismo passando per la lotta contro gli evasori fiscali. Al momento delle foto, Papandreou sembrava soddisfatto come se avesse appena messo le mani su un nuovo pacchetto di aiuti.
Il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, è volato in Grecia la scorsa settimana per un incontro con il collega di Atene, George Papandreou. Insieme hanno firmato ventuno accordi che coprono ogni settore dell'economia, dall'industria al turismo passando per la lotta contro gli evasori fiscali. Al momento delle foto, Papandreou sembrava soddisfatto come se avesse appena messo le mani su un nuovo pacchetto di aiuti.
Il divario fra i due paesi non è mai stato così grande e i quotidiani turchi marcano il punto con garbo: loro faranno parte dell'Unione europea ma noi ce la passiamo meglio, scrive Hurryet. Gli ultimi numeri dell'Istituto statistico di Ankara sono chiari: nei primi quattro mesi del 2010, le esportazioni turche sono cresciute dell'11 per cento e le importazioni del 35. Se la Grecia affonda – se l'Europa arranca – l'Anatolia avanza nonostante il calo degli investimenti stranieri. Lo sviluppo è guidato da una casta potente: sono uomini d'affari che si ispirano alla dottrina liberista, seguono le regole dell'islam e sostengono il partito di governo, l'Akp di Erdogan. Molti, dall'altra parte del Bosforo, osservano ammirati. Non c'è altro che possano fare.
Nel quartiere Mecidiyekoy, al centro di Istanbul, centinaia di operai sono al lavoro giorno e notte per completare le Trump Tower, due colossi di quaranta piani che ospiteranno uffici, appartamenti e ristoranti lussuosi. Un nuovo braccio della metropolitana è appena entrato in funzione e il governo ha stanziato 150 miliardi di euro per decine di nuove opere, compreso il terzo ponte fra la parte europea di Istanbul e l'immensa sponda asiatica. Ma il vero termometro dell'economia turca si trova a Konya, Adana e Gazi Antep, una striscia di città operose sulla strada verso l'Iran. “Dimenticate i bazaar, i carretti con le fragole e le altre fesserie scritte sulle guide turistiche – dice al Foglio Can Tolumen di Musiad, un'organizzazione di imprenditori musulmani – Oggi l'Anatolia è il luogo migliore per chi vuole fare business”.
Adana è considerata una capitale della regione. Il titolo dipende da due particolari: il primo è la moschea Sebanci, costruita alla fine degli anni Novanta con i soldi raccolti in tutto il medio oriente. Ha sei minareti e contiene trentamila persone, per trovarne una così grande bisogna andare alla Mecca. Il secondo è il numero di imprese che hanno fatto fortuna in città: sono centinaia, le chiamano Tigri dell'Anatolia ed è facile capire il perché. “Qui la crisi è durata poche settimane, il tempo di capire che i problemi della Grecia, della Spagna e dell'Italia potevano colpire i nostri bilanci – spiega Bilal Nadir, il proprietario di una fabbrica che produce materie plastiche – Abbiamo lasciato i mercati tradizionali per puntare su paesi come l'Iran e l'Afghanistan, il rischio è più alto ma anche i guadagni lo sono. E' così che abbiamo evitato il peggio, grazie a Dio e al governo”.
Gli imprenditori musulmani fanno il venti per cento dell'economia turca, ma la quota è destinata a salire. Il loro credo è una via di mezzo fra Maometto e Max Weber: arricchirsi non è un problema, sperperare sì. “L'etica dell'islam aiuta anche gli affari, chi segue le regole della religione è affidabile, si sveglia presto e non perde tempo”, dice Nadir, seduto nel suo ufficio alla periferia di Adana. Una ragazza di vent'anni con un foulard francese intorno al capo traduce sorridente. Intorno ci sono scrivanie pulite e bicchieri pronti per il tè. In pochi anni, quelli come Nadir sono riusciti a costruire un vero gruppo di potere. Hanno associazioni di categoria – il Musiad, per esempio, conta tremila iscritti e favorisce gli scambi con i paesi del medio oriente –, chiedono maggiore libertà in campo economico ma sono conservatori quando si parla di famiglia, istruzione e società. Fanno le vacanze negli alberghi della catena Caprice, dove gli uomini e le donne hanno piscine separate. Non si oppongono all'ingresso nell'Ue, anche se preferiscono un'intesa più leggera, basata sugli scambi commerciali.
La religione è una parte importante di questa storia, ma non è tutto. Secondo Tolumen, il segreto del successo è “l'entusiasmo” degli imprenditori musulmani. Altri pensano che gran parte del merito sia della “profondità strategica”, la dottrina elaborata da un professore dell'Università Bilkent, Ahmet Davutoglu, che oggi è ministro degli Esteri. Secondo Davutoglu, il paese è destinato a diventare il vero leader della regione: per riuscire deve semplicemente risolvere i problemi intorno ai confini. Il nuovo approccio ha permesso di rilanciare i rapporti con l'Iran, con la Siria, con la Grecia e con l'Armenia, vecchi rivali che ora diventano partner preziosi, soprattutto in campo economico. Il caso più eclatante riguarda l'industria militare: la Turchia sta diventando il primo fornitore di armi della Grecia, una vera rivoluzione se si pensa che i due paesi hanno passato gran parte del Novecento in guerra. La profondità strategica ha avuto un grande impatto sull'Anatolia. Ogni settimana, decine di pullman carichi di turisti siriani arrivano nei centri commerciali di Antakya e Gazi Antep, lontani un paio d'ore dal confine. Più a est, nella provincia di Igdir, il governo turco e quello iraniano studiano la nascita di un distretto industriale comune. Non c'è terra in Europa che attiri capitali così rapidamente. “Gli imprenditori italiani conoscono sempre meglio le potenzialità della regione – dice Roberto Luongo, che dirige l'Istituto per il commercio estero di Istanbul - Per questo, pensiamo che gli investimenti aumenteranno presto”. Grazie alla propria posizione geografica, dice Luongo, la Turchia sarà attraversata dagli oleodotti e dai gasdotti che collegheranno i giacimenti dell'Asia ai mercati dell'Europa, per questo il settore dell'energia vedrà un grande sviluppo nei prossimi anni.
La diplomazia ha un ruolo cruciale in questo processo. Gül, che appartiene all'Akp come Erdogan, riceve ogni giorno sovrani e ministri dall'Iraq, dal Pakistan, dagli Emirati e dall'Arabia Saudita. Alcune amicizie fanno discutere, come quella che lega Ankara a Teheran. I rappresentanti del governo turco hanno siglato di recente un'intesa sull'energia nucleare con l'Iran, ma la loro iniziativa è stata accolta con diffidenza negli Stati Uniti: poche ore più tardi, la Casa Bianca ha lanciato un nuovo round di sanzioni contro la Repubblica islamica. I rapporti con Israele sono al minimo dopo l'incidente della Mavi Marmara, la nave diretta a Gaza fermata lunedì, a settanta chilometri della costa, con un blitz dell'esercito. La fine di questa alleanza non è una buona notizia per l'occidente, ma Erdogan non rivedrà facilmente l'impostazione del governo: la ricompensa ottenuta sul piano elettorale è troppo alta per essere modificata. La foto del premier ha sostituito quella di Ataturk alle pareti dell'ufficio di Nadir e lo stesso vale per migliaia di imprenditori turchi.
Con la profondità strategica, l'Akp ha mosso l'equilibrio sul quale si reggeva l'economia: l'iniziativa è stata per decenni nelle mani dell'élite kemalista, che ha fatto di Istanbul il proprio centro di potere, mentre l'Anatolia agricola e religiosa è rimasta esclusa dallo sviluppo industriale. Ora gli imprenditori musulmani hanno la grande chance di competere sul mercato globale. Questa operazione ha creato un grande equivoco nella politica turca. Erdogan, che guida un movimento filo islamico, è considerato liberista perché ha riscritto le regole che impedivano lo sviluppo del paese, mentre gli avversari dell'opposizione sono definiti conservatori perché proteggono i valori e gli interessi dei kemalisti. Il confronto tra questi due mondi è diventato una lotta istituzionale: da una parte ci sono coloro che si reputano i custodi dell'ordinamento laico (magistratura, esercito e università), dall'altra i nuovi poteri dell'Anatolia. Nel 2007, Erdogan, Gül e i vertici del partito hanno rischiato di finire in carcere con l'accusa di attività sovversive, ma il caso è terminato senza conseguenze. Ad agosto la Turchia andrà alle urne per il referendum sulla nuova Costituzione: se la riforma passerà l'esame popolare, i poteri dell'esercito e dei magistrati saranno decisamente ridotti.
Nelle fabbriche di Adana la campagna elettorale è già cominciata.
Gli imprenditori musulmani non sono l'unico punto di forza di Erdogan. Un'altra grande spinta arriva dalle tarikat, le confraternite religiose molto diffuse sia a Istanbul sia nella parte orientale del paese. Queste comunità svolgono da sempre una funzione doppia: hanno educato per secoli milioni di turchi nelle moschee e sono riuscite a conquistare grandi interessi economici. Ci sono i suleimancys, che controllano i dormitori studenteschi migliori di Istanbul e hanno un grande network di istituti religiosi in Germania, oppure i naksibendi, un gruppo che ha avuto al proprio interno premier come Korkut Özal (che è stato anche presidente della Repubblica) e lo stesso Erdogan.
La tarikat più famosa è quella dei gulenisti. Il loro leader si chiama Feitullah Gulen, è un santone con il senso degli affari che ha deciso di lasciare il paese per evitare, così si dice, le attenzioni della magistratura. Oggi vive nello Utah e gestisce migliaia di scuole diffuse in ogni paese in cui ci sia una comunità di emigrati turchi. A Istanbul possiede un giornale importante, Zaman, fra i pochi ad avere un sito Internet con le notizie tradotte in inglese, e una serie infinita di associazioni professionali. Molti pensano che abbia seguaci anche all'interno delle polizia. Gulen ha garantito pubblicamente il proprio sostegno all'Akp. Ma com'è possibile che le tarikat abbiano superato la censura imposta dal kemalismo? Secondo Hakan Yavuz, un esperto dell'Università dello Utah che ha scritto un libro interessante sul fenomeno (“Islam Politica Identity in Turkey”, Oxford University press 2003), il pensiero religioso non è mai stato sradicato dall'Anatolia, per questo è normale che emerga adesso, con le aperture del governo.
L'avanzata degli imprenditori musulmani e l'ascesa delle tarikat sono il tema del momento in Turchia. Questa rivoluzione preoccupa la casta kemalista che ha governato per anni il paese: il loro potere si riduce progressivamente, non è scontato che riescano a mantenere i loro privilegi ancora a lungo. Ma l'era dell'Akp influenza anche le abitudini di molti cittadini. “E' da tempo che non vado più da sola in certi quartieri – dice Gulsum, una ragazza di vent'anni che lavora a Istanbul per un multinazionale e veste come tutte le ragazze europee della sua età – Rischio di essere insultata sull'autobus perché porto la gonna o mi trucco. Le cose stanno cambiando rapidamente in Turchia da quando al governo c'è un partito come l'Akp”. Erdogan vuole portare a termine la riforma della Costituzione per modernizzare il paese, ma molti pensano che questo tentativo metta in pericolo la stabilità della nazione. Il premier ha un unico modo per riuscire nel compito senza trasformare la Turchia in un paese più vicino e più simile all'Iran che all'Europa: quando verrà il momento, dovrà usare con le tarikat la stessa forza che mostra oggi nella battaglia contro gli ultrà del kemalismo.
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