Lost in translation

Piero Vietti

"E  adesso che cosa faremo il mercoledì sera?”. Più atteso di una finale di Champions League (ma probabilmente molto meglio), ve ne sarete accorti, pochi giorni fa in Italia è arrivato il finale di “Lost”, la serie tv che secondo molti “ha cambiato la televisione”. Il che sicuramente è vero, non fosse altro che per la spasmodica attesa creata nei fan e, sorprendentemente, anche in chi fan non lo era. Colleghi di lavoro che mai hanno seguito le vicende dei naufraghi sull'isola che chiedevano: “Allora, questo finale?”

    "E  adesso che cosa faremo il mercoledì sera?”. Più atteso di una finale di Champions League (ma probabilmente molto meglio), ve ne sarete accorti, pochi giorni fa in Italia è arrivato il finale di “Lost”, la serie tv che secondo molti “ha cambiato la televisione”. Il che sicuramente è vero, non fosse altro che per la spasmodica attesa creata nei fan e, sorprendentemente, anche in chi fan non lo era. Colleghi di lavoro che mai hanno seguito le vicende dei naufraghi sull’isola che chiedevano: “Allora, questo finale?”, giornali e tv che ne parlavano (spesso non sapendo quello che stavano dicendo). Su Twitter, Facebook, sui blog e sui siti creati ad hoc si faceva a gara a chi la sapeva più lunga, a chi aveva lo spoiler giusto, a chi aveva capito tutto e lo spiegava agli altri prima di “The end”, la puntata di quasi due ore che ha messo appunto la parola fine a un show che – unico nella storia della tv – ha creato nidiate di seguaci paragonabili a quelle di “Guerre stellari” o del “Signore degli anelli” (il libro, non i film).

     

    Poi è arrivata “The end”. E sui titoli di coda c’era chi piangeva commosso, chi è rimasto senza parole, chi, infuriato con gli sceneggiatori perché non avevano scritto la fine che lui aveva in mente, cercava un altro mistero (come se i mille lasciati comunque aperti dagli autori non bastassero). C’era chi ha cominciato a discuterne subito con gli amici, chi ha rivisto i sei anni precedenti alla luce della rivelazione finale, chi ha cercato soccorso nei forum (“Aiuto! Io non ho capito bene che cos’è l’isola, qualcuno me lo può spiegare?”, e cose simili). Tutti sapevano che non ci sarebbe più stato altro, nessuna nuova puntata in cui riporre le speranze di avere finalmente tutto chiarito, stando al gioco geniale che gli autori hanno cominciato con la prima puntata della prima serie: almeno un mistero a episodio, finale sospeso come nemmeno in “Beautiful” (si parva licet componere magnis) e spiegazioni rimandate più in là. “Lost” è finito, ora si potrà passare il mercoledì sera a parlarne, dato che è plausibile che se ne discuterà ancora per mesi, come scrivevano diversi critici televisivi americani in questi giorni.

     

    “Lost” è impossibile da riassumere, difficilissimo da spiegare, ma facile da amare. Quando, alla fine della prima puntata, dall’isola su cui i sopravvissuti del volo Oceanic 815 partito da Sydney e diretto a Los Angeles si stanno organizzando per attendere i soccorsi si leva un suono disumano e gli alberi della jungla si muovono, il cuore del telespettatore è già fottuto. O smetti di vederlo lì, oppure devi arrivare alla fine. Il resto è una scoperta continua di altri personaggi che abitano l’isola (cattivi?), del fatto che essa negli anni Settanta fosse abitata e studiata dal cosiddetto “progetto Dharma”, e di come l’isola sia “difesa” da un fumo nero che può uccidere chiunque.Come ha spiegato il critico televisivo Aldo Grasso, “Lost” è scritto come un grande romanzo medievale: si può leggere a strati. C’è quello più superficiale: la storia dei naufraghi che cercano di sopravvivere su un’isola misteriosa, sulla quale non sono da soli, e che forse ha una vita propria. Poi c’è tutto il resto: ogni cosa è segno, analogia, metafora. Più ci si addentra in questa lettura più ci si perde tra rimandi, citazioni, altri significati. Per dirla con Leopardi, però, è un naufragio dolce. In certi casi gli autori si sono divertiti fin troppo: i nomi di quasi tutti i personaggi, richiamano quelli di filosofi e scrittori (Hume, Locke, Austen, per citarne alcuni) o sono veri e propri nomen omen: il protagonista buono della serie, che guida i naufraghi dell’isola, è il medico Jack Shephard, dove il cognome è la storpiatura dell’inglese “pastore”. La francese che vive vent’anni da sola sull’isola si chiama Rousseau, come il filosofo che teorizzò il mito del buon selvaggio; uno dei coprotagonisti, il tenebroso e truffatore Sawyer, si chiama come il personaggio di Mark Twain, truffatore anche lui.

     

    Per capire di che cosa stiamo parlando, basti sapere che a qualcuno è venuta persino l’idea di farci un’enciclopedia on line, la “Lostpedia”. Migliaia di pagine, per ogni personaggio centinaia di informazioni. E’ più lunga la biografia di Jack Shephard di quella di Barack Obama. Ogni frase detta da uno di loro è riportata, contestualizzata, ricordata, ogni scena clou immortalata. Ogni nome, soprannome, intreccio degno di nota è analizzato, collegato a riferimenti più o meno credibili. Con i riferimenti biblici, poi, ci si potrebbe scrivere un Nuovissimo Testamento. “Lost” è innanzitutto una trama azzeccata, misteriosa e complicata il giusto, con personaggi completi, con grandi storie d’amore mai melense (il triangolo tra Kate, Jack e Sawyer si risolve di fatto alla penultima scena dell’ultima stagione, facendo sospirare più volte le fan donne), bei dialoghi, una regia sopra la media, effetti speciali ben dosati e una commovente colonna sonora.

     

    Se non l’avete mai visto, sappiate che un po’ di trama ve la sto per raccontare. Non bastano gli ascolti da record e le decine di premi vinti in questi anni per spiegare il fenomeno. Più in generale “Lost” parla della vita, del cammino dell’uomo verso la conoscenza, è il confronto continuo tra fede e ragione, come hanno più volte detto i due sceneggiatori, senza nulla di professorale o pretesco. “Lost” è un grande viaggio verso la redenzione, è la seconda possibilità, l’incontro con il destino. “Destiny calls” è stata non a caso la frase di lancio degli episodi per molto tempo. E in effetti con il passare delle puntate la sensazione che i “losties” non siano finiti su quell’isola sperduta nell’oceano per caso è sempre più forte. Sull’isola i personaggi imparano ad amare, a soffrire, a vendicarsi e a perdonare. “Se siamo qui è per un motivo”, ripete John Locke, l’uomo di fede, a Jack Shephard, l’uomo della ragione. Locke sull’aereo era in sedia a rotelle. Sull’isola cammina. Deve esserci un motivo. L’isola ha poteri strani, dovuti a una fonte eccezionale di energia elettromagnetica nascosta nel sottosuolo. Fonte che nei secoli molti uomini capitati su questo scoglio hanno cercato di sfruttare. L’isola però è anche “custodita” da un guardiano, Jacob (nome biblico), che “chiama” laggiù le persone per metterle liberamente alla prova.

     

    Suo antagonista è un uomo vestito di nero che non ha nessuna fiducia negli uomini e cerca di intralciare i piani di Jacob. “Loro arrivano – dice l’uomo in nero a Jacob – combattono, distruggono e corrompono. E’ così che finisce sempre”. “Finisce una volta sola – è la risposta – qualunque cosa succeda prima è solo progresso”. Le persone “chiamate” sull’isola arrivano tutte da esistenze infelici, hanno commesso colpe gravi e lì trovano la possibilità di redenzione. L’isola, ci spiegano in una puntata, è un dantesco “tappo” sopra l’inferno, che impedisce al male di distruggere il mondo (il Vangelo userebbe il termine katèkon). Nell’isola sembra esserci qualcosa che tutti gli uomini vogliono perché già ne posseggono una scintilla nel cuore. A voi l’interpretazione. Fatto sta che non pochi si sono arrabbiati per il messaggio un po’ troppo “religioso” (e nella fattispecie “cristiano”) che soprattutto il finale di stagione avrebbe dato. Anche se per il critico Aldo Grasso “i riferimenti cristologici mi sembrano evidenti in più di un’occasione”.

     

    Sulla stessa lunghezza d’onda è Simone Regazzoni, professore all’Università Cattolica di Milano e autore del libro “La filosofia di Lost” (Ponte alle grazie): “Lost è una potentissima macchina che spiega la realtà come sistema complesso”, dice al Foglio. C’è tutta la filosofia del Novecento, sull’isola: “E’ la storia della ricerca della verità nel rapporto con la realtà, ma racconta una verità che non si svela del tutto, impossibile da trovare, se non da prospettive diverse”. Certo è che la ragione da sola non ci arriva: “La filosofia del Novecento ci dice che non c’è un senso né una via razionale per arrivarci. L’isola è così: più scavi più scopri elementi utili”. Utili ma non fondamentali. “Gli unici elementi di salvezza, di stabilità, sono i rapporti affettivi tra le persone. Se non vogliamo morire da soli, dice Jack, dobbiamo vivere insieme”. In tutto questo c’è l’elemento religioso, però. “Che è importante – spiega ancora Regazzoni – Per muoversi in un universo complesso serve anche la fede, il personaggio di John Locke (pragmatico e ‘mistico’ insieme) ne è la dimostrazione”. La sola lettura “religiosa” di “Lost” non convince Regazzoni: “E’ riduttiva, teniamo conto che ci troviamo di fronte a una straordinaria opera audiovisiva. Un’opera complessa da considerare arte ad altissimo livello”.

     

    Interpretazioni a parte, per Aldo Grasso gli autori “ci hanno proposto sei stagioni straordinarie (con qualche calo fisiologico di tensione, certo) e un finale splendido”. Finale che ha diviso come una spada i fan sparsi per il mondo: c’è chi ha gridato al capolavoro e chi addirittura vuole indietro il suo tempo. Come in ogni storia d’amore che si rispetti non c’è via di mezzo, e chi si sente ferito è ancora più incarognito. Su Internet e sui giornali da giorni il dibattito è aperto, è probabile che si andrà avanti per mesi a parlarne, forse per anni: “Sono quarant’anni che ci chiediamo che cosa volesse dire il finale di ‘Una questione privata’ di Fenoglio – chiosa Grasso – Per ‘Lost’ succede come con i grandi romanzi: se ne continua a parlare, li si interpreta. Il bello è anche questo, poterci mettere tutte le interpretazioni che si vogliono”. I personaggi nelle sei stagioni creano dei legami forti tra di loro: molti si innamorano, altri già sono sposati e imparano ad amarsi sempre di più, tanti diventano profondamente amici. Legami che saranno decisivi in più occasioni fino alla fine. E’ la stessa sensazione che ha lo spettatore, che si affeziona a loro perché forse intuisce di avere le stesse domande fondamentali.

     

    Quello delle domande è forse il vero segreto del successo di “Lost”: “Avere avuto il coraggio di porre certe questioni che nessuno più pone – continua Aldo Grasso – è stata la grandezza di questa fiction”. Parlare di fede, ragione, vita, morte, destino, redenzione, sembra da pazzi oggi, farlo con una serie tv d’avventura è follia pura. Invece ha funzionato.

     

    Abrams, Lindelof e Cuse sono riusciti a impacchettare un prodotto di cultura e renderlo fruibile a tutti. “Come ogni opera che si rispetti – nota Grasso – gli autori hanno saccheggiato i grandi romanzi. Basti pensare al tema del naufragio, che è alla base di tantissime storie”. O alla continua corrispondenza, ad esempio, tra i libri in mano ai protagonisti e le loro vicende. Quando i naufraghi devono spostarsi dalla spiaggia all’interno dell’isola, Sawyer sta leggendo “La collina dei conigli”; in una puntata scopriamo che il libro preferito di Jack da bambino era “Alice nel paese delle meraviglie”, e c’è chi ha trovato corrispondenze tra il personaggio del dottore e quello inventato da Lewis Carrol. “Le nuove generazioni – chiosa Grasso – apprendono la letteratura per vie traverse, non più leggendo i libri, una di queste vie privilegiate è anche quella delle fiction televisive”. Qualcuno ha detto (Mariarosa Mancuso su queste pagine pochi giorni fa, tra gli altri) che “Lost” è la dimostrazione che certa tv è meglio di tanto cinema. “Non c’è dubbio – commenta Grasso – La televisione sta vivendo un periodo di schizofrenia intensa: da una parte in questi anni ha creato prodotti più raffinati e più interessanti di film e romanzi (penso a buona parte della serialità americana), dall’altra parte c’è però tanta tv spazzatura”.

     

    Il merito del finale di stagione di “Lost”, che sia piaciuto o meno, per Grasso è stato la sua capacità di “trasformare un evento di fiction in un evento mediatico. L’ultima puntata è stata trasmessa in contemporanea in diversi paesi, come se si trattasse delle Olimpiadi, del funerale di un capo di stato o di una partita del Mondiale di calcio. Non era mai successo prima per una serie televisiva”. Il merito va agli autori, che nonostante abbiano passato periodi di difficoltà (attori su cui avevano puntato che hanno lasciato la serie per i motivi più disparati, sciopero degli sceneggiatori, la Abc, il canale che in America ha trasmesso lo show, che minacciava di chiudere la serie), hanno tenuto in piedi un vero e proprio evento continuo con spese (e incassi) mai visti sul piccolo schermo. Qualche anno fa girava su YouTube un video (si trova ancora) in cui dei finti sceneggiatori si arrovellavano attorno a un tavolo per scrivere gli episodi di “Lost”: chi la sparava più grossa vinceva.

     

    Un’accusa mossa a Lindelof e Cuse in questi anni è stata proprio quella di navigare a vista, di avere fatto più volte il “salto dello squalo” (in gergo, il punto di non ritorno dopo il quale una fiction non è più credibile). Loro hanno sempre negato, dicendo di avere scritto lo show partendo dall’ultima scena. In effetti la sesta stagione è disseminata di indizi che portano a credere ai due autori, anche se, non trattandosi di un romanzo, è impossibile che tutto fosse previsto. Fidandosi dei “rumors” dei blog, ad esempio, si scopre come alcuni personaggi siano stati fatti fuori perché non piacevano al pubblico, e altri inizialmente pensati come comprimari siano diventati imprescindibili perché hanno incontrato l’apprezzamento dei telespettatori (è il caso di Benjamin Linus, leader degli “altri” abitanti dell’isola, tra i personaggi meglio riusciti della serie). “Chi parlerà di televisione da oggi in poi – ha detto l’attore che recitava nella parte di Jin dopo l’ultimo ciak – non potrà non parlare di ‘Lost’”. Aldo Grasso, che Storia della televisione la insegna all’università, concorda, con un appunto: “Chi parlerà di fiction televisiva non potrà non parlare di ‘Lost’. La televisione è un discorso troppo articolato”.

     

    Quando vent’anni fa finì “Twin Peaks” c’era chi diceva che non si sarebbe più potuto vedere qualcosa di simile sul piccolo schermo: “La complessità di quella serie provocò dei veri e propri traumi nel modo di concepire la fiction. Dopo vent’anni, anche grazie a ‘Twin Peaks’, è arrivato ‘Lost’, che sarà certamente una pietra miliare della serialità televisiva”. La cosa curiosa è che “fino a poco tempo fa ‘Lost’ era snobbato – prosegue Grasso – Era visto come la mania di quattro deficienti, adesso invece, come spesso succede in Italia, si capovolge tutto e ci sono quelli che si dicono delusi perché si credono più sceneggiatori degli sceneggiatori: invece di accettare e imparare siamo già qui a tentare di smitizzare quello che è stato ‘Lost’”. E’ vero che poche serie televisive – forse nessuna – hanno creato nei media e nel pubblico una reazione come quella scatenatasi lunedì scorso al termine dell’ultima puntata. C’è ancora molto da dire su “Lost”, soprattutto rileggendolo alla luce del suo finale. Certo è che la quantità di innovazioni narrative portate da questo show non ha eguali: si è partito con i flashback con cui mentre i naufraghi si organizzavano sull’isola ci venivano mostrate le loro vite prima dell’incidente; poi sono arrivati flashforward, con finestre su azioni future; quindi i flashpresent, con rimpalli continui tra luoghi diversi; infine, passando per veri e propri viaggi nel tempo, i flashsideways, con cui si vedono due realtà parallele.

     

    Raccontate a qualcuno che non ha mai visto un minuto di “Lost”, queste cose fanno sembrare degli svitati con il pallino per la fantascienza. Per capire di che cosa si parla bisogna mettere il primo dvd della prima stagione nel lettore e aspettare che il divano di casa sia catapultato sulla spiaggia dove Sayid cerca di aggiustare una radio, Jin e San fanno amicizia con gli altri passeggeri e Jack è perseguitato da suo padre, che continua ad apparirgli dopo che la bara con il suo cadavere – trasportata dall’aereo caduto sull’isola – si è persa nella jungla. E’ il rapporto difficile con il proprio padre, l’altro grande topos di “Lost” (molto novecentesco). Padri assenti, morti, ubriaconi. Non c’è una situazione normale. Per paradossale che possa sembrare, poi, sull’isola ogni gesto ha l’orizzonte dell’eterno, quantomeno del mondo: sembra che tutto quello che viene fatto lì possa avere una eco enorme, decisiva per le sorti dell’umanità. La battaglia tra il bene e il male che si delinea sempre più netta nel corso delle stagioni, si combatte sull’isola ma interessa il mondo. Non sappiamo se gli autori avessero in mente di fare qualcosa di così grandioso, o se, come con Michelangelo, l’opera sia uscita da sé dal materiale grezzo. Però l’hanno fatto. E Jack, Kate, Locke, Hugo, Sawyer hanno ormai il loro posto accanto ai personaggi dei romanzi che più abbiamo amato, senza sfigurare. Tutti insieme, perché “si vive insieme o si muore soli”.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.