La cravatta no

Stefano Di Michele

E una bella, risolutiva moratoria per le cravatte? Istituzionalmente parlando: arriva il caldo, tana libera tutti. Il cordone di seta che stringe, che strozza, che soffoca – così che la democrazia boccheggia e l'ordinamento ansima – più che segno di rispetto si fa strumento di costrizione, di presidenziale patimento, di assessorile afflizione. Persino il presidente Napolitano se n'è dovuto liberare, causa lieve malore immediatamente risolto.

    E una bella, risolutiva moratoria per le cravatte? Istituzionalmente parlando: arriva il caldo, tana libera tutti. Il cordone di seta che stringe, che strozza, che soffoca – così che la democrazia boccheggia e l'ordinamento ansima – più che segno di rispetto si fa strumento di costrizione, di presidenziale patimento, di assessorile afflizione. Persino il presidente Napolitano (che uno se lo immagina inappuntabile pure sulla spiaggia di Stromboli, a vulcano attivo), se n'è dovuto liberare, causa lieve malore immediatamente risolto. “Scusate per la cravatta, se non altro non ho lasciato solo il dottor Marchionne” – che sedeva lì al fianco, al solito scravattato ma al solito con un maglione, che nell'afa  suscitava persino più impressione di un doppio nodo.

    Bisognerebbe prenderne atto: libero collo in libera afa.
    Di suo, anni fa provvide il Cav., quando rivoluzionò il look, sparì la cravatta e arrivò la camicia nera – e senza stare stupidamente a qualificare la scelta cromatica, l'effetto iniziale fu onestamente da statista uzbeko, ma la comodità venne raggiunta e giustamente goduta, così che ora pure Paolino Bonaiuti s'affaccia dagli schermi dei tiggì fortemente gesticolante ma saggiamente orbo del manufatto color canarino Titti a lungo temerariamente ostentato. A parte Gianni Letta, che senza cravatta manco il barbiere lo ha mai visto, e Quagliariello per rapida identificazione, va rammentato che la stessa non è solo sofferenza, ma può essere pena mediatica – così che quella finiana nel giorno del gran scontro con il Cav., nelle cronache finì annotata come “una lingua di giraffa”.

    Il capestro estetico, dal punto di vista politico-istituzionale, venne rimosso per primo da Craxi, che si presentò a Tribuna politica senza l'indispensabile ornamento e l'Unità gagliardamente polemizzò: “Cosa crede, di avere un bell'incarnato?”. E nel forno del congresso barese del Psi, l'ultimo della già declinante gloria, mentre il sudore inzuppava la camicia ed evidenziava la canotta, ogni sguardo ammirato era fisso su Forlani, che in giacca e cravatta non faceva una piega e non faceva una goccia di sudore: “Guardate Arnaldo, sembra una damina…”. E' chiaro che la cravatta è un rischio e mai una certezza. Persino certi preti adesso se la mettono, a sospetto che casomai potrebbe essere persino più scomodo il colletto bianco, e sempre serve a disegnare un cattivo come si deve – così Baglioni cantava di quelli “strangolati da cravatte / che dentro la ventiquattr'ore / portano la guerra”.

    Regalo scontato (ma Woody Allen immagina una donna che informa il suo compagno di essere incinta, “il mio regalo di Natale”, e il poveretto atterrito, “ma a me bastava una cravatta”), verso cui fece il suo gran rifiuto persino Carlo Rossella, con argomentato saggio sulla Stampa (“Cravatta, ti ho tradito”), regredendo l'articolo a “fettuccia al collo”, passando mestamente in rassegna nell'armadio di casa la parata di Hermès e Marinella, Finollo e Battistoni – con la commozione di un presidente che saluta i corazzieri l'ultimo giorno al Quirinale. Rossella trovò, in seguito, consolazione estetica nel ritorno della Messa in latino. “Deo gratias”, lodò. Se adesso anche il Quirinale si adegua, il cerchio divino e istituzionale è finalmente chiuso.