D'Alema torna al lavoro
Com'era già accaduto nelle due edizioni precedenti, su “Religione e democrazia” prima e “Il futuro della natura umana” poi, la scuola estiva di filosofia organizzata dalla fondazione ItalianiEuropei, dedicata questa volta al tema “Il lavoro tra mercato e democrazia” (Capaccio-Paestum, 3-6 giugno), ha messo in luce un curioso paradosso.
Com'era già accaduto nelle due edizioni precedenti, su “Religione e democrazia” prima e “Il futuro della natura umana” poi, la scuola estiva di filosofia organizzata dalla fondazione ItalianiEuropei, dedicata questa volta al tema “Il lavoro tra mercato e democrazia” (Capaccio-Paestum, 3-6 giugno), ha messo in luce un curioso paradosso. Forzando appena un poco l'esito del dibattito, si potrebbe dire che l'intento di riaffermare la centralità del lavoro come fondamento di un pensiero critico autonomo della sinistra sulla società contemporanea, e di far questo chiamando a discuterne i più illustri esponenti della cultura progressista, si sia risolto nella dimostrazione di quanto gran parte di questi intellettuali siano ideologicamente inabili o semplicemente renitenti alla leva, e di quanto siano più utili alla bisogna, semmai, pensatori di formazione cattolica, e magari provenienti proprio dalle correnti meno progressiste di quella tradizione (chiamati a confrontarsi con gli altri, presumibilmente, allo scopo di non restringere troppo il campo del dibattito).
Piccolo esempio di effetto inintenzionale delle decisioni razionali, direbbero forse i filosofi. Un esempio politicamente significativo, però, specialmente se si tiene a mente l'eterno dibattito su identità, natura e finalità del Partito democratico. Il paradosso, tuttavia, non dovrebbe interrogare solo la sinistra, ma anche un giornale come il Foglio, che a un impianto filosofico integralmente ratzingeriano unisce una visione liberale-liberista dei problemi economici di chiara ispirazione anglosassone. Consapevole del problema (l'orientamento oggi prevalente tra gli intellettuali progressisti, una forma di “radicalismo aristocratico”), ma evidentemente poco convinto dell'alternativa (il dialogo con il pensiero cattolico più tradizionale), il padrone di casa ha avuto il suo da fare a trarsi d'impaccio. Ma bisogna aggiungere che a un occhio più critico Massimo D'Alema potrebbe anche apparire come perfettamente a suo agio, in un simile impaccio, e per nulla intenzionato a tirarsene fuori. Parlando all'ultima sessione, in un dibattito con il filosofo-sinologo francese François Jullien, D'Alema l'ha dunque presa larga, partendo proprio dall'idea orientale di una politica che debba anzitutto “accompagnare” e “incanalare” i processi reali, anziché tentare di “violentare la storia”. Altrimenti, paradossalmente, il rischio per la politica è di ridursi a “pura rappresentazione”, mentre il potere reale viene esercitato dalle forze anonime del capitale finanziario, secondo la vecchia battuta spesso ripetuta da Alfredo Reichlin sul mondo di oggi e la sua nuova divisione del lavoro: un mondo in cui la finanza governa, i tecnici amministrano e i politici vanno in tv. “Forma moderna del non-agire – ha chiosato ironicamente D'Alema, citando Jullien – ben diversa da quella cinese”.
Di qui il presidente di ItalianiEuropei ha cercato di riprendere il filo delle molte discussioni cui aveva diligentemente assistito nel corso dei tre giorni precedenti, a partire dalla rottura del “nesso tra lavoro e soggettività politica”. La crisi della sinistra nasce infatti dalla crisi di questo nesso, dice D'Alema. Dal fatto cioè che “il lavoro non è più fondativo della soggettività politica” (parafrasando i classici: l'essere sociale non determina più la coscienza). In altre parole, dal fatto che non è più la condizione lavorativa il fondamento della rappresentanza. Un fenomeno né nuovo né solo italiano: l'operaio iscritto alla Cgil che vota Lega, in fondo, ha avuto il suo predecessore già molti anni fa nell'operaio francese che votava Le Pen. Fenomeno politico che ha una base concretissima, che non è certo pura astrazione sociologica: la fine (o almeno la perdita di centralità) dell'operaio specializzato come grande soggetto politico della storia europea. Questa sarebbe infatti secondo D'Alema la frattura principale del nostro tempo, in cui sotto la stessa insegna, la “flessibilità”, si muovono di pari passo fenomeni opposti: da un lato la crescente frammentazione di un lavoro manuale ridotto ormai allo stato di una nuova condizione servile, dall'altro un lavoro intellettuale altamente qualificato, capace di muoversi autonomamente e con profitto sul mercato globale, che è l'altra faccia di quella stessa flessibilità, la faccia cioè effettivamente legata all'autorealizzazione del soggetto.
Analisi non banale, e che infatti si potrebbe anche contestare, osservando come in molti casi, specialmente per quanto riguarda i giovani, la vera novità sia la riduzione a una condizione servile proprio del lavoro intellettuale più qualificato e titolato, dalle università agli studi professionali alle piccole aziende informatiche cariche di ingegneri che i diritti dell'operaio-massa, regolarmente contrattualizzato e sindacalizzato, se li sognano. Ma questo è un passo ulteriore, che richiederebbe forse una più radicale revisione di tanti discorsi (e di tante concrete scelte di governo) che risalgono agli anni Novanta, e cioè a quella generale infatuazione neoliberista della stessa sinistra europea che D'Alema può oggi criticare, ma fino a un certo punto, avendo avuto la sua parte – e una parte non secondaria – nella vicenda. Ma può anche darsi, più semplicemente, che D'Alema sia ancora oggi convinto di buona parte di quelle scelte e di quelle parole, al di là degli inevitabili eccessi, naturalmente sempre criticabili (ex post). Ciò non toglie, però, che la catena delle conseguenze e specialmente l'esito delle discussioni svoltesi nei giorni precedenti sarebbero state più che sufficienti a mettere in guardia anche il politico meno avvertito. Se infatti il problema principale della sinistra è oggi la frantumazione del mondo del lavoro, la difficoltà oggettiva di rappresentarlo politicamente, dunque di ricondurne a unità le diverse istanze, da dove ripartire, quale altro fondamento cercare?
Non c'è bisogno di coltivare una visione del mondo ferma agli anni Cinquanta per diffidare, come mostra di fare il presidente di ItalianiEuropei, di una sinistra che cercasse questo nuovo fondamento nell'idea del soggetto consapevole che vuole autorealizzarsi (senza che questa esigenza, negata sul lavoro, sia confinata per compensazione alla sola dimensione del consumo). O nell'idea che “il nuovo conflitto, anziché tra capitale e lavoro, sia oggi tra individualismo amorale e una forma consapevole di cittadinanza”. In sintesi: nel passaggio “dalla sinistra-potenza alla sinistra-coscienza critica, dall'aspirazione a rappresentare il senso della storia all'idea di una minoranza etica che fa le bucce ai grandi processi politici”.
Cos'è altrimenti quel che è stato chiamato “ceto medio riflessivo”? I ceti medi urbani, colti e informati. “Io peraltro ci andai a discutere, qualche anno fa, in un'assemblea a Firenze – ricorda D'Alema – e non mi sembrarono così riflessivi” (“E forse neanche così medi”, chiosa il direttore del Mattino, Virman Cusenza, riferendosi presumibilmente al loro status di affermati professori universitari, editorialisti e politologi). Conclude dunque il padrone di casa: “Se lasciamo alla destra la rappresentanza di un inedito blocco delle forze produttive, impresa e lavoro, la sinistra si riduce a una forza strutturalmente minoritaria”.
Ripensando all'esperienza degli anni Novanta, molti degli astanti avrebbero potuto, forse, filosoficamente replicargli: de te fabula narratur. Ma da questo punto di vista, purtroppo, i confini tra i filosofi e il politico sono meno netti di quanto potrebbe apparire. Forse perché in fondo anche la politica ha delle ragioni che la ragione non conosce, come quando, tra una sessione su “lavoro e forme del fare” e l'altra su “lavoro e soggettivazione politica”, D'Alema si ritaglia il tempo per una conferenza stampa con gli amministratori locali, in cui viene entusiasticamente celebrata la sua eroica resistenza in difesa della locale produzione di mozzarelle di bufala al tempo della crisi della spazzatura (rivendicata dallo stesso D'Alema, che ricorda con orgoglio come da ministro degli Esteri non esitò a “fare da scudo umano in difesa delle mozzarelle”) e un politico locale non esita ad auspicare per lui un luminoso futuro come ministro dell'Agricoltura. Chissà cosa ne avrebbero detto i filosofi, se avessero assistito alla conferenza. Fossero stati lì, dopo tante lezioni sulla nuova centralità dell'opinione pubblica consapevole in quanto portatrice di istanze morali universali, difficilmente il cronista avrebbe potuto resistere alla tentazione di far loro notare, scespirianamente, come vi fosse più politica in quelle mozzarelle di quanta se ne sognasse in tutta la loro filosofia.
Del resto, se il problema da cui ripartire è la gioia dell'ergon (la gioia dell'opera compiuta) sottratta al lavoratore, e addirittura la riscoperta del valore classico dell'ozio, se il problema è insomma la deriva “sindacalistica” di una sinistra che ha pensato più a contrattare migliori condizioni di lavoro invece che ad afferrare per le corna il tema dell'autorealizzazione dell'individuo, il sospetto non è che in tanta filosofia vi sia poca politica, ma che vi sia proprio una politica sbagliata, e nemmeno nuova. Semplificando e probabilmente distorcendo il senso di tante relazioni d'indiscutibile profondità e acume, da quella di Salvatore Natoli a quelle di Carlo Galli, Stefano Petrucciani, Alessandro Ferrara, l'impressione è di trovarsi di fronte all'ultima, definitiva condensazione di una linea di pensiero che a sinistra, tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli anni 80, all'insegna dell'autorealizzazione e della creatività dell'individuo, e in opposizione alla deriva sindacal-burocratica e omologatrice del Pci, dall'estremismo di sinistra e dagli indiani metropolitani del '77 conduceva tanti dei suoi sostenitori dritti dritti al modernismo di Bettino Craxi e Claudio Martelli (per finire, oggi, a Silvio Berlusconi). Sarà per un pregiudizio vetero-marxista o semplicemente passatista, ma riesce difficile considerare oggi un grande progresso, per la cultura di sinistra, il passaggio dall'utopia di una società senza classi perché governata dagli operai all'utopia di un paese senza più divisioni di classe perché interamente composto di grafici pubblicitari, artisti e creativi consimili.
Ascoltando alcune relazioni, insomma, viene proprio da pensare che gli organizzatori si siano trovati dinanzi al primo problema della politica: per contrastare un pensiero egemone, occorrono pensatori, e pensatori di un certo livello; ma al tempo stesso, se affermati pensatori capaci di elaborare una visione, una grammatica e un lessico alternativi al pensiero egemone abbondassero, quel pensiero non sarebbe, per l'appunto, egemone, dunque non ci sarebbe nemmeno bisogno di simili iniziative seminariali. Risultato: si parte chiamando a raccolta le migliori forze intellettuali del paese in vista della presa della Bastiglia e si finisce a prendere il tè da Maria Antonietta, discutendo di ceto medio riflessivo, opinione pubblica consapevole e autorealizzazione del soggetto. Questo almeno è il rischio che si profila, al di là dell'indiscutibile valore culturale dell'iniziativa e di un parterre internazionale di prim'ordine, tanto più agli occhi di un osservatore digiuno di filosofia, e per giunta sempre più saldo nel pregiudizio che il pensiero politico moderno e la filosofia in generale, dagli anni Cinquanta a oggi, non abbiano fatto altro che regredire (perlomeno a giudicare da quanto ne filtra nel dibattito pubblico non accademico). Basta sfogliare le pagine politiche e culturali di quegli stessi giornali su cui scrivono tanti dei convenuti: si lamentano l'omologazione televisiva, l'influenza dei persuasori occulti, la crescente alienazione e mercificazione del lavoro, ci si confida serenamente quanto si starebbe meglio se il diritto di voto fosse riservato solo a capaci e meritevoli, e di tanto in tanto si gettano al lettore – tra un “morte al neoliberismo!” e l'altro – le vecchie brioches di un radicalismo da ultrasinistra sempre più rinsecchito, perfettamente funzionale alla conservazione dello status quo.
La prima, provvisoria conclusione che si potrebbe trarre da tutto questo è che oggi l'egemonia si manifesti in forme nuove e molto più radicali rispetto al passato. Se infatti nella teoria politica classica si intendeva come egemonia la capacità di influenzare (e quindi dirigere) non solo il proprio campo, ma anche, almeno in parte, gli stessi avversari, nell'era dei mezzi di comunicazione di massa e della personalizzazione della politica l'egemonia sembra consistere piuttosto nella capacità di influenzare a tal punto il campo avversario da rendergli le sue stesse parole d'ordine e i suoi stessi leader, o almeno quelli tra loro che tale egemonia cerchino di contrastare, semplicemente estranei.
La seconda conclusione è che l'idea originaria che aveva ispirato i fondatori del Pd, prima dell'avvento di Walter Veltroni e della svolta “americana” e nuovista, non era poi tanto campata per aria. L'idea cioè dell'incontro tra la tradizione del riformismo comunista e socialista italiano con la tradizione cattolica. Già nella seconda edizione della scuola, a proposito del “futuro della natura umana”, parlando di scienza, religione e temi eticamente sensibili, era stato non per nulla il cattolico Adriano Pessina a criticare “quelle visioni del problema che presuppongono troppo disinvoltamente un uomo libero, adulto, autonomo”. Una concezione dell'uomo come “contraente di un inesistente contratto rawlsiano… roba da Walt Disney” (e già qui il settore marxista della platea aveva trattenuto a stento l'ovazione). In quell'occasione Pessina aveva polemizzato con il “mito dell'autorealizzazione, perché non possiamo misconoscere che noi siamo sempre impregnati dell'altro”.
Ma soprattutto, e più in generale, con il liberalismo, che si rivela “una bussola insufficiente, quando si tratti di cure prolungate, cure palliative e anche di giustizia nei confronti delle persone che si prendono cura di coloro che ne hanno bisogno”, perché “non basta alla democrazia il mero aspetto procedurale”. Restava solo da dire: e perché tale bussola liberale dovrebbe rivelarsi insufficiente solo in quel caso? Ma ecco che in proposito interviene ora il sociologo cattolico Mauro Magatti, nel corso della sessione dedicata a “Sistema dei bisogni e bene comune”, a partire dalla considerazione che “in società che hanno raggiunto livelli di benessere, pluralismo culturale e libertà mai visti prima, il pensiero di cosa sia la libertà è il luogo dell'egemonia” (che già, come inizio, non è male, e ricorda la conclusione dalemiana della precedente edizione della scuola: “Il liberalismo è un campo di battaglia”). E poi, ancora: “L'idea formalistica secondo cui il bene comune sarebbe solo un insieme di regole che garantiscano la libertà di tutti è così poco elettrizzante, in società tanto cariche di desiderio…”. E soprattutto: “Il tema non è la crisi dell'io, ma la crisi del noi”. Non per nulla, prosegue Magatti, in questi anni si è assistito a un gigantesco spostamento di ricchezza dai salari ai profitti, per di più “in assenza di conflitto”, segno della forza di questa egemonia che ha ruotato attorno all'idea del “desiderio reso godimento”. Un “immaginario della libertà” che dal soggettivismo del Sessantotto condurrebbe dritti al neoliberismo di questi anni, e che così ha potentemente alimentato la riorganizzazione capitalistica. Senza per questo dare risposte regressive (riduzione delle libertà), la crisi invoca dunque “forze capaci di immaginare una diversa idea di libertà”. Dunque un “pensiero socialista che assuma più integralmente la persona come nodo di relazioni”. Fuori dalla società degli individui, si potrebbe quindi concludere, superando il mito dell'autodeterminazione del singolo, con tutti i relativi corollari di teoria (e politica) economica, su cui hanno detto parole definitive Salvatore Biasco (ex presidente della commissione per la Riforma tributaria sotto Vincenzo Visco, e autore del recente e pionieristico “Per una sinistra pensante”) e l'economista brasiliano Franklin Serrano. A proposito di quel sistema economico – aggiungiamo noi – che presuppone troppo disinvoltamente un individuo libero, adulto, autonomo, autodeterminato e sempre perfettamente razionale nelle sue aspettative e nelle sue scelte. Un tema che meriterebbe certamente molte discussioni, e non solo a sinistra.
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