C'è cattedrale e cattedrale
Per primi entrano i cappuccini, con i sandali ai piedi e la cotta bianca sopra al saio. Portano loro la Croce. Dietro sono una quarantina i vescovi di tutt'Europa e dell'Anatolia, l'arcivescovo Edmond Farhat, nunzio apostolico in Libano, a rappresentare la Santa Sede. La bara spoglia, sopra solo il Vangelo aperto, è già lì per terra davanti all'altare. Dentro al Duomo sembra quasi che sia la presenza di monsignor Luigi Padovese a guidare i gesti dei suoi confratelli nell'episcopato.
Per primi entrano i cappuccini, con i sandali ai piedi e la cotta bianca sopra al saio. Portano loro la Croce. Dietro sono una quarantina i vescovi di tutt'Europa e dell'Anatolia, l'arcivescovo Edmond Farhat, nunzio apostolico in Libano, a rappresentare la Santa Sede. La bara spoglia, sopra solo il Vangelo aperto, è già lì per terra davanti all'altare. Dentro al Duomo sembra quasi che sia la presenza di monsignor Luigi Padovese a guidare i gesti dei suoi confratelli nell'episcopato. Funerali solenni, rito religioso, saluto commosso a un fratello nella fede. Per una volta, le formule vuote descrivono un fatto pieno di senso. E' il rito della chiesa di Ambrogio e Carlo che saluta un suo figlio sacerdote. Per quanto il vicario apostolico dell'Anatolia ucciso il 3 giugno non fosse sacerdote diocesano ma padre cappuccino, figlio di Francesco e della grande vocazione missionaria fiorita nel secolo della riforma cattolica. Ma era partito da qui, aveva studiato i padri della chiesa dell'Asia minore, era diventato biblista e, a Milano, amico del cardinale Carlo Maria Martini. La chiesa ambrosiana ha del resto un filo sottile ma tenace che la lega alla chiesa apostolica di Turchia. E' lì che Martini aveva voluto guidare il suo ultimo pellegrinaggio da arcivescovo. Perché, disse, in quel luogo “che le vicende storiche hanno ridotto all'essenziale”, accade però che “credere è facile”. E lì l'arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha portato i suoi giovani preti, per imparare il significato della missione in un paese islamico.
Chi aspettava dalla chiesa di Milano una risposta non timida al martirio di monsignor Padovese ha avuto una risposta solenne. Più di 350 sacerdoti a concelebrare e riflettere sul martirio e intorno tanti laici, anche giovani, universitari. Pieno il Duomo e molta gente sul sagrato, sotto al cielo grigio. Anche ragazzi, universitari. E' Padovese che guida, a lui si guarda, l'omelia del cardinale Tettamanzi è un florilegio di citazioni.
Nell'ottobre 2009 Padovese aveva scritto: “La vita non viene più dalla morte e dal sacrificio di altri, ma piuttosto nell'offerta di sé, dalla morte di sé per la vita di altri. E' la fine della violenza! E' una offerta volontaria!”. Il leitmotiv dell'omelia di Tettamanzi è un versetto di Giovanni: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto”. Lo stesso che il cardinale Camillo Ruini aveva citato quattro anni fa, per don Andrea Santoro. Ruini disse che la “fine violenta” di don Santoro poteva portare “a concludere che si illudeva”. Il suo era invece “il tipico coraggio dei martiri”. E aveva ribadito: “Fin da adesso sono interiormente persuaso che nel sacrificio di don Andrea ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano”. Non dice persecuzione, Tettamanzi, ma parla di “una chiesa di minoranza, spesso sofferente e provata”. Il martirio c'è, nessuno ovviamente ha bisogno di dare un nome alla causa. Ma le letture della liturgia, diversamente dal consueto, sono brani dalla Passione di Luca e Matteo.
Solo alla fine sono più dirette, dure, le parole di monsignor Ruggero Franceschini, il vescovo di Smirne che proprio non vuole “ingannare nessuno davanti a questa bara”. Dice che la chiesa di Anatolia è un “piccolo gregge disperso e ora anche colpito, sgomento, impaurito”, troppo fragile oggi “per fronteggiare il male che l'ha colpita, troppo povera per trovare in se stessa le risorse per continuare a sperare almeno di esistere”. Ricorda che Padovese non aveva avuto paura ammonire i suoi figli: “Tra tutti i paesi di antica tradizione cristiana – aveva detto – nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che calpestiamo è stata lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo anziché rinnegarlo”.
La sveglia è data, l'impegno chiesto non generico: “Alle chiese sorelle chiediamo vocazioni: in particolare sacerdoti, religiosi e religiose… Venite a vivere il Vangelo, venite ad aiutarci a vivere, semplicemente”, ha concluso monsignor Franceschini. Il libretto della liturgia si chiude con una frase del vescovo ucciso: “In un'epoca di pluralismo il fare missione rinunciando a un'attitudine dominatrice pare essere vincente perché riproduce l'atteggiamento di Cristo”. Sulla sua immagine distribuita ai fedeli, si leggono invece le parole con cui, il 5 febbraio 2010 aveva ricordato don Santoro: “Mi piace rilevare che sia stato ucciso come simbolo, come realtà di sacerdote cattolico. Non è stata uccisa soltanto la persona, ma si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava”.
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