L'ex segretario dei Ds e la questione del male minore
Fassino ci spiega perché se fosse un operaio di Pomigliano firmerebbe l'accordo
"E' vero, per i lavoratori di Pomigliano le condizioni sono onerose, ma quando si tarda ad affrontare i problemi, si rischia sempre di pagare un prezzo. E il sindacato ha fatto finta di non vedere la bassa produttività e l'inefficienza". Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds, torinese, da sempre e notoriamente più che attento al mondo Fiat, anche in queste ore è molto in sintonia con Sergio Marchionne.
"E' vero, per i lavoratori di Pomigliano le condizioni sono onerose, ma quando si tarda ad affrontare i problemi, si rischia sempre di pagare un prezzo. E il sindacato ha fatto finta di non vedere la bassa produttività e l'inefficienza".
Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds, torinese, da sempre e notoriamente più che attento al mondo Fiat, anche in queste ore molto in sintonia con Sergio Marchionne – lo ha detto ieri al Corriere della Sera – ha scelto la linea anti Fiom, fino all'appello pro firma, al “ci ripensi” per evitare in extremis l'accordo separato e la spaccatura che potrebbe certificare un isolamento, quella che qualcuno ha già ribattezzato la marcia dei cinquemila. Perché dice Fassino “quando non si vede il contesto, i problemi reali, si rischia la sconfitta del sindacato”. “E' già successo”, ricorda in questo colloquio con il Foglio in cui mette a confronto il 1980 con il 2010, la marcia dei quarantamila, con la resistenza dei metalmeccanici della Fiom, quel 10 per cento di iscritti Cgil che a suo dire difetta di realismo.
“Anche negli anni Ottanta la sinistra era di fronte a una ristrutturazione ineludibile, a una crisi di produttività e di mercato senza affrontare la quale la Fiat sarebbe finita stritolata. Quella ristrutturazione le consentì di superare la crisi e di riprendersi. Oggi la situazione è analoga: il caso Pomigliano non è solo il caso di uno stabilimento, ma è parte di una ristrutturazione più generale in cui è in gioco la sfida di tenere in piedi il polo automobilistico Fiat e Chrysler”. Fassino a quell'annus horribilis del sindacato, ai 35 giorni di sciopero che precedettero la marcia silenziosa dei colletti bianchi, ha dedicato la sua tesi di laurea in Scienze politiche, discussa nel '98 quando era ministro e che ora, annuncia, diventerà un libro, pubblicato in occasione del trentennale di quegli eventi.
“Nell'Ottanta come oggi i metalmeccanici si rifiutavano di vedere il contesto: serviva una ristrutturazione e loro la interpretavano come un atto politico, come un assalto al sindacato e al suo ruolo. Oggi mi pare si faccia lo stesso errore: ho letto alcune interviste del leader della Fiom, Maurizio Landini, in cui si sostiene che la Fiat vuole dare una mano al ministro Maurizio Sacconi nello smantellamento dei diritti dei lavoratori, e non una parola sui problemi reali della fabbrica”. Le differenze tra la Fiat di Cesare Romiti e la Pomigliano di Sergio Marchionne ci sono, ovviamente. Piero Fassino le vede nella diversa forza del sindacato, “era una potenza nelle dinamiche sociali e politiche. Ed era forte anche il Pci, che tentò, nelle posizioni di Chiaromonte, del partito torinese di non negare le esigenze della ristrutturazione. Non ce la facemmo perché il muro contro muro era troppo forte”. L'idea del Fassino di oggi è che serva realismo, meglio “la capacità di fare i conti con la realtà”, lo stesso peraltro invocato dalla Cgil della Campania che ieri ha invitato i lavoratori a firmare l'accordo. Un vecchio sindacalista degli anni torinesi dal nome evocativo Aventino Pace insegnava a noi giovani una massima, “se i problemi non li vedi tu, li vede il padrone e li risolve senza di te”. Quello che vede “è invece il rischio di essere velleitari, mentre viviamo nel tempo in cui i contratti si rinegoziano. Guardate la Germania dove in qualche caso il sindacato ha proposto addirittura riduzioni salariali…”.
L'ex segretario dei Ds, che tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta a Torino, era il responsabile delle fabbriche e dei sindacati del Pci non condivide la tesi del “ricatto di Marchionne” o “dell'arretramento dei diritti” sostenuta da Fausto Bertinotti (anche lui protagonista della stagione pansindacalista torinese, ma senza revisionismi) di Sinistra e libertà che nella vicenda Pomigliano e nella riduzione delle pause di lavoro, nei turni di otto ore, nel modello giapponese sul quale si è soffermato Luciano Gallino su Repubblica, ritrovano spazio politico. Dice Fassino: “Ho imparato da Bruno Trentin che i diritti non li hai perché sono scritti, ma perché sei capace di esercitarli. Li eserciti se sei capace di avere il tuo punto di vista sui problemi della fabbrica. I diritti li tutela chi si fa carico dei problemi e costruisce delle soluzioni”. Fassino si fa carico anche del punto di visto di Marchionne, dei tempi cambiati, della “polmonatura” cioè il numero di auto “sul piazzale”, già prodotte, di riserva da immettere nel mercato rapidamente in caso di necessità che oggi si è ridotta rispetto a trent'anni fa. Osservazioni che tuttavia non significano dare ragione al Giulio Tremonti di qualche mese fa, quello che dichiarava finita la stagione del conflitto tra capitale e lavoro: “Quelle sono solo battute, il conflitto c'è sempre, ma naturalmente cambiano le modalità con cui si esprime e devono cambiare le forme con cui lo si gestisce” dice Fassino. Realpolitik sindacale ancora una volta, quella che gli fa giurare che “se fossi un operaio di Pomigliano firmerei l'accordo, è il male minore”.
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