Discussione attorno alla apologia di una crociata

Padovese, Ratisbona e altre considerazioni sull'amore evangelico per il nemico

Giuliano Ferrara

Questo dell'amore evangelico per il nemico, in tempi di scontro di civiltà al cui centro stanno ebrei e crociati, come dice Osama bin Laden, è un grandissimo tema. Senza strepito né scandalo, pur essendo fortemente scandalizzato, ho segnalato una posizione radicalmente difforme da quella irenista, che è prevalsa nel caso dell'assassinio di monsignor Luigi Padovese in Turchia, con la pubblicazione dell'articolo, secondo me bellissimo, del professor De Mattei.

    Al direttore - Leggendola nel Foglio sul tema dell'amore evangelico per il nemico, mi è sembrato di capire sempre meglio la sua posizione sottile e penetrante sul tema del Cristianesimo, e la mia interpretazione. Mi trovo assolutamente d'accordo con lei nella critica al professor Alberto Melloni. Come insegnava Carl Schmitt, quando la Sacra Dottrina esorta ad amare il nemico, non invita ad essere dei rammolliti e neanche ad equiparare gli uni agli altri, amici e nemici, in un unico limbo indefinito. Figuriamoci. Per amare i nemici bisogna averli. E non si può essere cristiani senza trovare tante persone avverse, e senza combattere con se stessi e con gli altri per tutta la vita.

    Questo tipo di considerazione consegue del fatto che si deve pensare ad un aspetto non solo interiore e culturale della fede, come fa Melloni, ma anche spirituale e pubblico, come lei giustamente sottolinea. Amare il nemico significa vedere nell'altro una persona creata da Dio anche quando si è in trincea e si deve ucciderlo. Vuol dire rendersi conto del carattere assolutamente umano dello scontro lacerante e fratricida che investe il genere umano. Una consapevolezza quest'ultima che dà grande serenità alla lunga, pur non pacificando mai l'animo di nessuno.
    Cerco di rispondere anche ad alcune delle domande che lei propone nell'articolo. La prima questione la trascrivo così: come un non credente può dare rilevanza pubblica al Cristianesimo? La replica immediata è riconoscere che la chiesa, ovvero i contenuti e le pratiche di vita dei cristiani, è qualcosa che appartiene comunque alla propria cultura e alla propria tradizione laica. E questa è la modalità meno concessiva possibile e forse più a buon mercato.

    Il secondo modo è considerare, più in profondità, le diverse sfumature di significato che ha il sentirsi parte della cristianità.
    Io sono convinto che se esistesse veramente un ateo, questi non potrebbe essere devoto. A cosa, infatti, darebbe ossequio? La maggior parte delle persone, per contro, crede specificamente a qualcosa di cristiano: il Vangelo, le virtù morali, l'amore per il prossimo, il peccato, perfino l'amore per i nemici.
    Ora, io penso che la giusta domanda che lei solleva sia mal posta recentemente sia da Melloni che dal professor Roberto De Mattei (il Foglio del 9 giugno). Un incredulo in senso assoluto, ossia chi non confida per niente in nessuna positività della Rivelazione, non riconosce mai il valore pubblico del cristianesimo. Anzi, lo combatte o si difende da esso. La maggior parte dei non credenti, per fortuna, confida viceversa in qualche aspetto della fede, magari anche soltanto culturale o sentimentale, negandone evidentemente altri. Chi arriva, infine a pensare ad una certa positività della chiesa gerarchica giunge ad essere certo perlomeno del valore positivo dell'istituzione, sentendo finanche la necessità di professarne la verità e difenderne la funzione pubblica.

    Più complessa è, all'opposto, la seconda questione sollevata dal suo articolo, quella relativa alla milizia.
    Io non condivido l'invasamento crociato di De Mattei non perché non militi cristianamente tutti i giorni e pubblicamente. Trovo soltanto che quella forma di manifestazione sia ideologica e anacronistica. Si crede e si combatte fuori o dentro la chiesa, ma sempre concretamente e nel proprio tempo. Chiamare in causa la guerra santa è sbagliato non in virtù di un'equiparazione irenista delle confessioni, ci mancherebbe altro, ma perché in tal modo si finisce per ignorare la consistenza attuale dei problemi, nonché la forza e la potenzialità ultima del cattolicesimo politico che è la straordinaria capacità d'inserirsi universalmente e con slancio nel moderno, conquistandone la condotta.

    Nel Medioevo i laici erano quasi tutti guerrieri. San Bernardo, pertanto, doveva necessariamente parlare a loro per parlare ai laici. Oggi la battaglia si combatte nella trincea quotidiana, con i nemici laicisti con cui si lavora e si condivide il proprio destino epocale. In tal senso nessuno si metterebbe la giubba crociata e andrebbe così in un'università occidentale, in un'azienda, in un sindacato o in un partito politico a sostenere in modo caricaturale quegli ideali. Può prendersi il lusso di fare l'apologia delle crociate chi non pensa di vincere il relativismo contemporaneo, per portare la fede al centro del mondo concreto, e, diciamolo, pure al vertice del potere. E', insomma, un lusso da utopisti e non da apostoli.


        Benedetto Ippolito


    Questo dell'amore evangelico per il nemico, in tempi di scontro di civiltà al cui centro stanno ebrei e crociati, come dice Osama bin Laden, è un grandissimo tema. Senza strepito né scandalo, pur essendo fortemente scandalizzato, ho segnalato una posizione radicalmente difforme da quella irenista, che è prevalsa nel caso dell'assassinio di monsignor Luigi Padovese in Turchia, con la pubblicazione dell'articolo, secondo me bellissimo, del professor De Mattei. C'era bisogno di ribadire quello che chiamo il paradigma di Ratisbona, e se a farlo sono posizioni tradizionaliste, che rispetto senza doverle condividere in toto, ben vengano. Noi “laici devoti” cerchiamo di agire senza lingua di legno né paraocchi in fatto di cristianesimo. Ribadisco, caro Ippolito, che “atei o laici devoti” è espressione paradossale mutuata da un Nino Andreatta capostipite del “cattolicesimo adulto”, da me impiegata in allegra e ironica ritorsione, quando ormai tanti anni fa la devozione universale al secolo che avanza, con i suoi protocolli intolleranti, ci lasciò in solitudine laica a difendere il diritto del professor Rocco Buttiglione a non essere bruciato sul rogo laicista, per aver pronunciato la parola “peccato”, dai tremendi bacchettoni e devoti di Bruxelles. E poi, a me piacciono le parole desuete e oggetto di derisione o di infamia: “devozione” è tra queste parole, in un tempo di ridicoli libertinaggi.

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.