Chi è quello strano tizio che gira in Sudafrica e fa finta di essere Mourinho?
All'inaugurazione, Nelson Mandela non c'è. Non gliela ha fatta, è rimasto a casa, sulla sua carrozzella, con il peso dei novantadue anni e della malattia. Forse gli hanno anche taciuto la morte di una nipote, l'altra notte, in un incidente stradale all'uscita da un concerto. C'è invece e gongola Sepp Blatter. Il quotidiano il Monde lo chiama “Joseph I roi du foot”, forse si chiama così anche da solo e ne avrebbe ragione.
All'inaugurazione, Nelson Mandela non c'è. Non gliela ha fatta, è rimasto a casa, sulla sua carrozzella, con il peso dei novantadue anni e della malattia. Forse gli hanno anche taciuto la morte di una nipote, l'altra notte, in un incidente stradale all'uscita da un concerto. C'è invece e gongola Sepp Blatter. Il quotidiano il Monde lo chiama “Joseph I roi du foot”, forse si chiama così anche da solo e ne avrebbe ragione. Ha imposto questo primo Mondiale africano a scettici e refrattari, coprendo di ridicolo i tanti sociologi che parlano a vanvera di povertà, criminalità, insicurezza. Lo stadio di Johannesburg è magnifico, il popolo dalle ventuno lingue, tante quante sono le linee disegnate sul pallone ufficiale della manifestazione, è tutto colori, festa, danza e canto.
L'occhio è sazio, l'orecchio pure, ci pensano migliaia di trombette di plastica modellate su quelle che gli zulu ricavavano secoli fa dalle corna di antilope. In dodici anni di presidenza della Fifa Joseph Blatter ha piantato il calcio un po' ovunque, ha esteso i confini di questa follia e allargato il business a ogni continente. Ha fatto politiche che i politici non fanno, ha creato opportunità che la diplomazia non crea più. E fa anche tanti soldi. Diciamolo è forse l'unico esempio riuscito di governance mondiale.
La prima partita deve essere come l'antipasto alla sagra della porchetta. Leggero da non affaticare il fegato. Il Sudafrica, paese organizzatore con il rango più basso nella classifica internazionale, veniva da una lunga serie da sconfitte. L'essenziale dunque era non perdere. Per poco non vince: Tshabalala segna con una cannonata di sinistro cronometrata a oltre cento chilometri l'ora, poi il Messico pareggia. Il Sudafrica è acerbo, lo si sapeva, il Messico domina ma sciupa: uno a uno e tutti contenti. Anche del pallone, il famigerato “Jabulani” che i portieri di Brasile, Italia e Spagna, trovano troppo leggero, imprevedibile nelle traiettorie, insomma uno scandalo, una mezza marchetta fatta allo sponsor Adidas. Probabilmente quando si giocherà in altitudine ci saranno problemi ma al livello del mare non si vedono differenze con quelli delle edizioni precedenti.
La sera scendono in campo tra le altre due squadre del girone A, Uruguay e Francia, troppo tardi per parlare della partita ma non di un uomo che è un mistero. Si chiama Raymond Domenech, allena da anni la Francia, odia l'Italia ma non per questo non è molto simpatico. E' proprio antipatico di suo, anche in patria. Dove si chiedono come mai questo professore di ginnastica con la iattanza di Mourinho ma senza le sue uscite brillanti, senza i suoi colpi di genio e soprattutto senza i suoi risultati, sia ancora al suo posto. Il bilancio in effetti è magro, le sue scelte contestate, la squadra spaccata. Dallo spogliatoio piovono critiche a un modulo di gioco pericolosamente sbilanciato in avanti, vorrebbero che giocasse Thierry Henry, che almeno ogni tanto indietro, torna a difendere e a coprire. Certo sarebbe il colmo tenere fuori proprio lui che con un paio di “innocenti” tocchetti di mano si aggiustò la palla prima di calciare nella rete irlandese e regalare la qualificazione alla Francia. Ma forse per una volta non è Domenech a sbagliare, Henry ha meno fame di altri ed è ormai l'ombra di se stesso. Comunque un sostenitore il mister ce l'ha. E di chiara fama: Nicolas Sarkozy. Il presidente gli ha telefonato per incoraggiarlo e fargli gli auguri. Ma visto il punto in cui è precipitata la popolarità presidenziale, non è detto che sia di buon augurio.
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