Valute in barca
Tutto quello che c'è da aspettarsi dalla nuova politica monetaria della Cina
La Cina conferma l'intenzione di far apprezzare gradualmente la sua valuta nazionale, lo yuan. Oggi Pechino ha infatti fissato ufficialmente il tasso di cambio di riferimento a 6,7980 per un dollaro. Ecco tutto quello che c'è a monte, oltre che a valle, di questa storica decisione.
L'annuncio che la Cina è disposta a ritornare a una flessibilità guidata del cambio estero dello yuan giunge pochi giorni dopo l'avvertimento rivolto al G20 che non avrebbe gradito che si parlasse di questo argomento nelle prossime riunioni in Canada. Evidentemente le autorità cinesi si sono poste il problema di come avrebbero dovuto reagire nel caso in cui qualcuno lo avesse fatto e hanno preferito mettere le mani avanti, sopratutto se questo qualcuno fosse gli Stati Uniti sotto la spinta dalle pressioni ancora vive nel loro Congresso. Subito dopo hanno però precisato che le rivalutazioni dello yuan saranno graduali.
Questa puntualizzazione può significare che la Cina torna al regime valutario pre-crisi 2007-2009 prendendo a riferimento un paniere di monete la cui composizione non è mai stata resa nota, che equivale a una flessibilità del cambio non centrata sul solo dollaro; ora però dentro il paniere c'è un euro debole che premerebbe sulla sottovalutazione dello yuan, imponendone una significativa rivalutazione. Oppure significare l'introduzione di un regime di flessibilità controllata dosata dagli effetti che si produrranno sulle loro esportazioni e sugli andamenti economici interni. Non a caso si sono anche affrettati ad aggiungere che le rivalutazioni saranno decise sulla base dei interessi.
La decisione, senz'altro utile per alleggerire le molte tensioni internazionali della Cina, ha forse radici nelle esigenze di politica economica interna. Tra i motivi, infatti, vi è certamente l'attesa di effetti disinflazionistici generalizzati derivanti dalla rivalutazione del cambio, in una situazione in cui l'aumento dei prezzi è tra le principali preoccupazioni delle autorità cinesi per il persistente riscaldamento dell'attività edilizia e degli aumenti salariali in corso. Una corrente di pensiero antiwelferiana e proindustrialista, diciamo di un capitalismo modernista, ritiene inoltre che un cambio forte induca un rallentamento nello sviluppo delle produzioni labor intensive a favore dello sviluppo di investimenti capital intensive, che rappresentano il canale naturale di sviluppo delle produzioni ad alto valore aggiunto. Una politica di aggiustamento graduale del cambio, in presenza di una sottovalutazione accertata dello yuan, indurrebbe normalmente a un'ondata speculativa che accelererebbe e accentuerebbe la rivalutazione; ma le autorità cinesi controllano rigidamente i movimenti a breve scadenza e sottopongono ad autorizzazione quelli a lunga e, pertanto, ritengono di poter controllare tempi e dimensioni della così detta fluttuazione in stile Pechino.
I problemi, se problemi ci sono, riguardano il resto del mondo. Da un lato i paesi in surplus che gravitano sull'area cinese vedranno le loro monete rivalutarsi; dall'altro, le valute dei paesi in deficit, a cominciare dal dollaro, si svaluteranno. Prima della crisi greca, l'euro poteva essere candidato alla rivalutazione, ma oggi, nella migliore delle ipotesi, può mantenere il suo attuale valore esterno. Aumenteranno però le tensioni interne all'euroarea, dato che la Germania accrescerà il suo avanzo di bilancia commerciale. Ma non è tutto: tolta l'ancora ai cambi, che la stabilità dello yuan garantiva molto opportunamente al mondo, le barche valutarie si troveranno in mare aperto e nessuno può prevedere dove approderanno.
Più semplice, invece, è intravedere l'evolversi delle quantità di esportazioni: a rigor di logica quelle cinesi dovrebbero diminuire e quelle del resto del mondo aumentare perché, con la rivalutazione dello yuan, aumenterà la convenienza per queste ultime a spese delle prime. Il quesito è fino a che punto la Cina accetterà questi effetti. E' ragionevole ipotizzare che la stella polare del “nuovo” regime di cambio annunciato sarà appunto l'andamento delle esportazioni nei suoi riflessi sullo sviluppo interno del reddito e dell'occupazione, che resta un obiettivo irrinunciabile per la stabilità socio-politica della Cina, alla quale anche Stati Uniti e resto del mondo hanno assoluto bisogno. Se la politica del cambio cinese sfuggisse di mano, il mondo si troverebbe di fronte a un'ennesima crisi nascente dalla cronica insufficienza della cooperazione internazionale che la Cina non riconosce come essenziale per il suo stesso sviluppo e le riunioni dei G8-G20 mascherano con il loro finto unanimismo e le pretattiche e tattiche nazionali. come quelle alle quali assistiamo.
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