Il romanzo anti industriale è una litania davvero reazionaria

Sergio Soave

Guido Viale ripropone sul manifesto la tesi, in realtà arcaica ma presentata come modernissima, dell'imminente crollo del capitalismo e del sistema industriale, che dovrebbe essere sostituito, questa volta, non dalla dittatura proletaria ma da quella ecologistica. Prende come pretesto il problema di Pomigliano per svolgere la sua tesi, che si può riassumere in questo modo.

    Guido Viale ripropone sul manifesto la tesi, in realtà arcaica ma presentata come modernissima, dell'imminente crollo del capitalismo e del sistema industriale, che dovrebbe essere sostituito, questa volta, non dalla dittatura proletaria ma da quella ecologistica. Prende come pretesto il problema di Pomigliano per svolgere la sua tesi, che si può riassumere in questo modo.
    Il piano Fiat punta a un aumento della produzione di automobili, mentre l'auto è un bene “obsoleto” che non ha più mercato nei paesi sviluppati che hanno raggiunto e superato il livello di saturazione e che nei paesi emergenti non può vedere una presenza competitiva di prodotti di origine occidentale (probabilmente a causa dei costi di produzione superiori determinati dai salari da fame degli operai cinesi e indiani).

    Per questo ogni programma produttivo automobilistico è un errore in sé.
    I trasporti devono essere collettivi, ma senza nuove strade o ferrovie, che rovinano il “territorio”. Insomma il “nuovo modo di fare l'automobile” consiste semplicemente nel non farla più. Infine Viale riconosce che nessun governo, né di destra né di sinistra, avvierà mai un progetto di distruzione sistematica delle fonti di reddito industriali, il che lo porta a prevedere che la “conversione ecologica” nascerà “dal basso”, attraverso una convergenza di “tutti coloro che non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative, dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali”. Invece di produzioni industriali bisognerebbe puntare su una non meglio identificata “conversione ecologica dell'economia”, fatta di pale eoliche, di protezione del suolo, di agricoltura “biologica”. Invece dei “soviet e elettrificazione” avremo una nuova sintesi tra deindustrializzazione e mangiatori di fragoline di bosco, che a occhio e croce appare assai meno preoccupante per la stabilità dell'odiato capitalismo del programma leniniano.

    Si tratta evidentemente di un'utopia,
    dell'idea di un “altro mondo” che appare irrealizzabile, almeno in tempi ragionevolmente prevedibili. Le utopie, in genere, si presentano come affascinanti, con il limite di non essere concretamente perseguibili. Quella proposta da Viale, invece, è assai dubbio anche che sia desiderabile. L'ipotesi di fondo è che il consumo di beni industriali venga ridotto al minimo, sostituito da quei beni “immateriali” che piacciono tanto soprattutto a chi ha già larga disponibilità degli altri.

    Le critiche al sistema,
    che ne colgono spesso contraddizioni reali, messe in luce impietosamente dalla crisi finanziaria, spingono a cercare vie innovative, tra le quali c'è un certo spazio anche per una più accentuata preoccupazione ambientale. Utilizzare queste circostanze per reiterare le litanie anti industriali che dal pensiero romantico sono state trasferite a quello ecologista è un riflesso comprensibile ma davvero, persino in senso tecnico, reazionario.