Sinistra, socialismo, laburismo: ce la può fare D'Alema a riscrivere il Dna del Pd?

Sergio Soave

La nomina di Massimo D'Alema a presidente del centro studi della socialdemocrazia europea ha suscitato irritazione e allarme nel settore cattolico del Partito democratico, per ragioni identitarie comprensibili ma un po' burocratiche e autoreferenziali. Sarebbe preferibile che gli esponenti della tradizione cristiano sociale intervenissero nel merito delle idee esposte da D'Alema e dalla sua fondazione.

    La nomina di Massimo D'Alema a presidente del centro studi della socialdemocrazia europea ha suscitato irritazione e allarme nel settore cattolico del Partito democratico, per ragioni identitarie comprensibili ma un po' burocratiche e autoreferenziali. Sarebbe preferibile che gli esponenti della tradizione cristiano sociale intervenissero nel merito delle idee esposte da D'Alema e dalla sua fondazione. Nel confronto culturale è impossibile far valere steccati e preclusioni organizzative, inoltre uno dei punti deboli principali dell'impostazione dalemiana consiste proprio nella sottovalutazione dell'apporto, in realtà decisivo, delle formazioni cristiane europee alla costruzione del welfare, che invece viene enfaticamente attribuito al cosiddetto “secolo socialdemocratico”. Non si tratta soltanto di una esasperazione propagandistica, ma di un errore di prospettiva, gravido di conseguenti ulteriori travisamenti.

    Lo stato sociale europeo è stato l'esito di un compromesso, non della vittoria della socialdemocrazia. Lo stesso vale per l'attribuzione alla socialdemocrazia di una presunta priorità nella costruzione europea. Com'è noto il patto di Roma fu costruito dai leader democristiani di Germania, Francia e Italia, e la tappa successiva più importante, quella della moneta unica, ha come padre il cancelliere Helmut Kohl. E' vero invece che l'affossamento del progetto di costituzione europea per via referendaria porta la firma in primo luogo dei socialisti francesi, terrorizzati dal mitico “idraulico polacco”.
    Non si tratta di “fare le pulci” alla lezione londinese di D'Alema poi ripresa dal segretario generale di Italianieuropei, ricca peraltro di spunti interessanti, ma di verificare le basi di una costruzione culturale. Il punto centrale dell'impostazione dalemiana consiste nell'affermazione che “sembra essersi consumata una grande stagione che ha visto la socialdemocrazia europea protagonista della trasformazione e del governo delle nostre società; eppure questo fenomeno si presenta oggi a noi non come l'esito ragionevole di una vittoria della cultura liberista sulla tradizione socialista, ma al contrario come un sorprendente paradosso.

    La sinistra arretra proprio nel momento in cui la grande crisi
    finanziaria, economica e sociale chiude il ciclo di una globalizzazione senza regole dominata dall'ideologia ultraliberale”.
    In questa descrizione del “paradosso” si dà per scontata l'adesione delle formazioni moderate e cristiane europee alla “cultura liberista”, si trascura l'impegno tedesco per l'economia sociale di mercato o la difesa anche sociale dei campioni nazionali francesi, insomma si dipinge un antagonista di comodo il che rende paradossale il ragionamento, non il processo storico.
    La forzatura dell'analisi del ruolo storico della socialdemocrazia europea, enfatizzato, e delle formazioni moderate, rinchiuse indebitamente nel recinto liberista e nazionalista, diventa funzionale a una proposta di ritorno all'età dell'oro della socialdemocrazia, all'eguaglianza come valore redistributivo, all'intervento pubblico nell'economia come strumento principe della politica. Naturalmente la fragilità delle basi analitiche non toglie, di per sé, validità all'impostazione politica proposta, che deve essere esaminata per i suoi contenuti effettivi. Quello che però è difficile da comprendere è come mai sia proprio un leader politico di una sinistra che ha integrato al suo interno la tradizione cristiano sociale a trascurare in modo così plateale la funzione esercitata da questa componente nella costruzione sia dello stato sociale sia del processo di integrazione europea.

    Il punto più interessante dell'impostazione dalemiana
    è l'indicazione del soggetto principale al quale riferire l'azione della sinistra: “Il primo grande problema per i progressisti è di rimettere con forza le radici nel popolo: a cominciare dalla capacità di riscoprire il conflitto sociale nelle sue forme moderne e di dare rappresentanza al mondo del lavoro e ai suoi interessi”. L'indicazione è resa più stringente dall'accenno polemico all'attuale insediamento elettorale della sinistra, che non deve correre il rischio di “ridursi a rappresentare una minoranza più illuminata e più protetta (insegnanti, lavoratori pubblici, pensionati o quella borghesia intellettuale che ha cultura e buoni sentimenti e per di più vive nei quartieri dove non ci sono né immigrati né rom)”.

    Il “conflitto sociale nelle sue forme moderne”
    è un terreno piuttosto accidentato, difficile da interpretare secondo categorie obsolete di origine marxista, che trova una parziale ma rilevante rappresentanza nelle organizzazioni sindacali, sulle quali l'influenza della socialdemocrazia, una volta indiscussa (con l'eccezione dei paesi latini in cui è stata e talora è tuttora in competizione con quella comunista), si è attenuata e in qualche caso capovolta. Si apre qui un grande campo di ricerca culturale e uno spazio di costruzione politica, nel quale possono essere esaminate criticamente e sintetizzate posizioni ed elaborazioni provenienti da varie fonti, non solo naturalmente socialdemocratiche. Per esempio il tema del superamento di rivendicazioni chiuse nell'ambito del welfare “risarcitorio” tradizionale viene trattato ampiamente nel libro bianco del ministro Maurizio Sacconi, dove si valorizzano le analisi dell'Ufficio internazionale del lavoro. Sul rapporto tra soddisfazione salariale e produttività è centrale l'esperienza della Cisl internazionale e quella peculiare di quella italiana. Ovviamente l'elaborazione e la pratica rivendicativa di grandi centrali sindacali socialdemocratiche, come la Dgb tedesca o le Unions britanniche, ha un peso determinante, mentre è difficile trovare segni univoci di uno sbocco politico offerto dalle socialdemocrazie a queste sollecitazioni. L'identificazione di un comune principio ordinatore a livello continentale capace di orientare le iniziative della sinistra politica e sindacale nella gestione del moderno conflitto sociale è senza dubbio un obiettivo apprezzabile ancorché assai arduo.

    Per ora l'indicazione dalemiana è piuttosto apodittica che analitica: “Alla necessaria apertura dei mercati non può che corrispondere un'espansione dei diritti individuali e dei lavoratori”. Questa correlazione “necessaria” è tutt'altro che dimostrata, la durezza dei fatti compresi quelli recentissimi di Pomigliano, sembra indicare una direzione tutt'affatto diversa. Ciò non toglie che invece l'obiettivo sia affascinante e che possa costituire un riferimento per la sinistra europea e non solo, se sarà in grado di esercitare una effettiva rappresentanza politica del mondo del lavoro, il che non può affatto essere dato per scontato.

    L'influenza esercitata dalle formazioni moderate e identitarie
    sui lavoratori, almeno a livello elettorale, è in Europa un dato di fatto. D'Alema attribuisce alla “paura” la radice psicologica di questa situazione, dequalificandone la componente politica con l'impiego di stereotipi come il populismo, la xenofobia, la demagogia. Se si guarda per esempio alla relativamente recente affermazione, spesso maggioritaria, delle formazioni liberaldemocratiche nell'Europa scandinava, dove non è diffusa alcuna “paura” e dove le socialdemocrazie hanno realizzato robuste strutture sociali e un efficiente stato del benessere, si vede come questa analisi sia perlomeno parziale. Analizzare in modo differenziato “l'avversario” è un insegnamento togliattiano che D'Alema non dovrebbe trascurare, naturalmente solo dal punto di vista del metodo. “Democrazia, eguaglianza, innovazione”, i valori forti indicati per rendere nuovamente competitiva la sinistra europea, non sono monopolio della socialdemocrazia, il che non toglie che un impegno culturale per rendere fungibili questi concetti nella situazione reale rappresenti una condizione basilare per ridefinirne l'identità.

    E' per questo che lo sforzo di D'Alema e della sua fondazione rappresenta un dato positivo, anche per chi non condivide la sua impostazione politica o la sua base analitica di riferimento. Inoltrandosi su questi campi con spirito di ricerca e di apertura è probabile che le incrostazioni di propagandismo e di unilateralità lasceranno lo spazio a un confronto reale sulle incerte prospettive del vecchio continente. D'Alema ha la curiosità culturale e l'onestà intellettuale necessarie per compiere questo tragitto. Ai suoi oppositori all'interno del Partito democratico, oggi arroccati in una contestazione identitaria non priva di appigli ma culturalmente sterile, dovrebbe forse offrire lo spazio per un confronto di idee meno legato alle simbologie e alle tradizioni e più impegnato nella ricerca comune di soluzioni, com'è peraltro nella natura di un lavoro essenzialmente culturale. Il fatto che il contenitore sia un istituto legato al Partito socialista europeo non dovrebbe essere un ostacolo insuperabile, anche perché l'articolazione di posizioni all'interno di quell'aggregato è talmente ampia da non rappresentare un vincolo o un rischio di processi di esclusione per nessuno. D'altra parte sulla triade “democrazia, eguaglianza, innovazione” i cristiano sociali hanno un patrimonio di elaborazione e una tradizione di pratica politica e sindacale oggettivamente competitivi con quello della tradizione socialista, persino con eccessi egualitari, come quelli perseguiti per esempio dalla prima fase della Cisl di Pierre Carniti.

    Nel Partito democratico spesso la disputa sul contenitore ha ammazzato quella, assai più interessante, sui contenuti. Se questo è in qualche misura comprensibile quando si tratta di definire le strutture per l'esercizio dell'azione politica e per la selezione della classe dirigente, non trova invece ragionevoli giustificazioni nel campo della ricerca culturale. A D'Alema, impegnato in un'opera nella quale ha bisogno degli apporti anche di critiche più ampi, conviene non innalzare barriere discriminanti ed evitare ricostruzioni unilaterali, ma gli altri dovrebbero superare prevenzioni personali o pregiudizi ideologici altrettanto ingiustificati.