Cosa Nostra & Politica
L'Entità è il coltello buono per sventrare Dell'Utri
Il primo a parlare dell'Entità fu Tommaso Buscetta. Dello storico pentito non si sentiva parlare da molto tempo. Giovanni Falcone, dopo averlo spremuto a dovere per varare e portare a compimento il maxiprocesso, l'aveva spedito negli Stati Uniti, affidandolo alla protezione dei marshal. In Italia non c'era ancora la legge per i pentiti e bisognava in qualche modo tutelarlo dai pericoli e insieme tenerlo lontano dalle tentazioni.
Il primo a parlare dell'Entità fu Tommaso Buscetta. Dello storico pentito non si sentiva parlare da molto tempo. Giovanni Falcone, dopo averlo spremuto a dovere per varare e portare a compimento il maxiprocesso, l'aveva spedito negli Stati Uniti, affidandolo alla protezione dei marshal. In Italia non c'era ancora la legge per i pentiti e bisognava in qualche modo tutelarlo dai pericoli e insieme tenerlo lontano dalle tentazioni. Bisognava soprattutto trovare il modo per graziarlo, condonandogli i crimini, e per pagarlo, mantenendo lui e la sua famiglia. Così Falcone aveva detto agli americani: prendetevelo voi, che una legge sui pentiti già l'avete, e Buscetta, come è stato utile a noi, vi potrà aiutare nell'inchiesta sulla “pizza connection”. Gli americani per un certo periodo l'avevano nascosto e pagato. Ma alla fine l'avevano scaricato per scarso rendimento: Buscetta, anche se si faceva chiamare “il boss dei due mondi”, aveva dimostrato di sapere molto poco dei traffici d'oltreoceano. Al processo per la “pizza connection”, quando si era trattato di parlare del suo vecchio amico Gaetano Badalamenti, aveva persino sostenuto che l'ex capo di Cosa Nostra non aveva mai trafficato in stupefacenti. “Non mi risulta”, aveva dichiarato, provocando le ire del prosecutor, che aveva malamente investito i marshal: avete portato qui, aveva domandato, un teste per l'accusa o per la difesa?
E Buscetta era rimasto a lungo negletto e quasi dimenticato, e senza più il programma di protezione con i relativi emolumenti. Ma dopo la strage di Capaci e l'assassinio di Borsellino, l'11 settembre del 1992 Buscetta ricompare improvvisamente sulla scena e si rifà vivo con un messaggio destinato ai magistrati italiani che indagavano sulle stragi e con una promessa: io so molte cose, aveva detto o piuttosto aveva fatto capire, che non ho detto a Falcone, specialmente dei rapporti tra mafia e politica. A lui non l'ho mai detto, ma ora, dopo la sua morte e per onorare la sua memoria, sarei disposto a dire a voi ciò che non ho mai detto a lui.
All'inizio, ai magistrati di Palermo che erano andati a trovarlo a Washington (a dirigere la procura di Palermo non c'era ancora Giancarlo Caselli) non aveva detto molto e aveva parlato solo di Salvo Lima, ucciso due mesi prima di Falcone e quattro mesi prima di Paolo Borsellino, e dei rapporti di Lima con Vito Ciancimino. Ma Luciano Violante, divenuto presidente della commissione parlamentare Antimafia, prende una decisione clamorosa e senza precedenti e che anche il suo predecessore alla presidenza della commissione, il senatore Gerardo Chiaromonte, si era sempre rifiutato di prendere. Decide di chiamare a deporre dinanzi alla commissione Buscetta e gli altri pentiti che i magistrati di Palermo stanno interrogando nell'ambito delle indagini per l'assassinio di Lima, e lo fa mentre ancora i magistrati li stanno interrogando e prima ancora che la polizia giudiziaria abbia potuto verificare le loro dichiarazioni.
E il 12 novembre Buscetta torna all'improvviso in Italia e ufficialmente torna solo “temporaneamente” e solo per deporre, come “persona informata dei fatti” in un processo di mafia, un processo secondario (il processo per l'assassinio di Lima non è ancora cominciato). Ma il tribunale di questo processo, che è presieduto da Gioacchino Agnello, lo aspetta invano: “Abbiamo aspettato per mesi questa deposizione – dichiarerà Agnello – e mai Buscetta era voluto venire. Poi è arrivato in Italia e lo abbiamo appreso dai giornali. Buscetta ha dichiarato ai giornali di essere tornato perché è sconvolto per la morte di Falcone e Borsellino e vuole parlare con i giudici italiani. Allora io sono venuto a Roma con le carte per sentirlo, ma Buscetta ha continuato a parlare coi giornalisti ed è andato alla commissione Antimafia e da noi non è venuto”.
Protesta anche il ministro di Grazia e Giustizia: “Come è possibile, dice, che Buscetta vada in Parlamento e non vada dai giudici?”. Risponde Buscetta, in prima persona: “Mi è stato ufficialmente comunicato – fa mettere a verbale – che la commissione antimafia ha chiesto se ero disponibile a rendere dichiarazioni in quella sede. Ho deciso di accettare l'invito perché desidero esternare in forma concreta la speranza che lo stato possa finalmente attuare una strategia concorde e unitaria per sconfiggere Cosa Nostra. Pertanto chiedo di poter rendere le mie dichiarazioni alle Signorie Vostre dopo che sarò sentito dalla commissione Antimafia, in quanto ho bisogno di qualche giorno di libertà per potermi meglio preparare a tale audizione”. Per rispondere alle domande dei giudici Buscetta ha ancora bisogno di prepararsi, per rispondere alle domande di Luciano Violante è già pronto.
Il 16 novembre Buscetta compare dinanzi alla commissione e subito dichiara: “Dovrei dire delle cose che possibilmente creerebbero panico”. Sommerge i commissari con un delirio di grandezza, esaltando la sua storia di mafioso e: “Io ero l'astro nascente, il personaggio nuovo, il mio nome era cubitale, troppo eclatante, io ho suggerito agli altri, le mie riflessioni sono gravi, qui andiamo a fare la storia, posso suggerire alla commissione…”. Per ora, incalzato dalle domande di Violante,li tiene sulla corda, ripete continuamente: “In questa sede non ho nessuna intenzione di fare nomi di politici”. Ma quando si arriva a parlare dell'assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la dice tutta. Non rivela ancora il nome fatale, ma pronuncia la parola che diventerà famosa: “Signori convincetevi... Che importava a Cosa Nostra di uccidere Dalla Chiesa? Il generale era appena arrivato a Palermo e non aveva ancora fatto niente... E allora bisogna vedere l'entità che ha chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale!”.
L'“entità”, ecco la parola che diventerà celebre e che cela malamente il nome che Violante vuole sentire. “Possiamo capire cos'è l'entità?”, domanda a Buscetta. Buscetta si sottrae: “L'entità politica, no”. Ma Violante incalza: “Comunque qualcuno ha chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale...”. E Buscetta: “Ecco,sì”. E Violante: “Badalamenti le parlò di un uomo politico. Con Badalamenti vi siete detti il nome dell'uomo politico?”. E Buscetta: “Il nome lo dirò al giudice”. E Violante: “Ma deve rispondere sì o no alla mia domanda. Si tratta di un uomo politico che ancora fa politica?”. Buscetta resiste, protesta, divaga: “Ma che facciamo, giochiamo alle dieci carte...”. Violante, inesorabile: “Chiedere se si tratta di un uomo politico ancora in vita, tenendo presente che gli uomini politici in Italia sono migliaia, non mi pare che sia una domanda che possa pregiudicare...”. E Buscetta, rassegnato: “Sì, è vivo”.
Poteva bastare. Anche se gli uomini politici ancora in vita in quel momento sono migliaia, come dice Violante, tutti hanno capito, e lo spiegheranno tutti i giornali e le tv l'indomani, che l'“entità” che ha chiesto a Cosa Nostra di uccidere il generale Dalla Chiesa è Giulio Andreotti. Che puntualmente, qualche anno dopo, sarà processato per l'assassinio del giornalista Pecorelli: perché, come chiarirà Buscetta, gli assassinii di Pecorelli e di Dalla Chiesa sono “intrecciati”, e Andreotti ha chiesto a Cosa Nostra di uccidere Pecorelli, questo fu il teorema dell'accusa, perché questi lo ricattava con le carte del memoriale di Aldo Moro che gli passava Dalla Chiesa, dopo averle trovate nel covo delle Br di via Monte Nevoso a Milano. Come è noto, anni dopo l'“Entità”, il presunto mandante dell'assassinio di Pecorelli è stato assolto con formula piena, e nel frattempo i veri mandanti dell'assassinio del generale Dalla Chiesa erano stati già condannati in un altro processo fino in Cassazione.
Diciotto anni dopo l'entità di Buscetta è spuntata un'altra “entità”, evocata dal Superprocuratore antimafia Piero Grasso, il quale, parlando il 26 maggio, il giorno dopo in cui il Csm l'ha riconfermato nella carica, davanti ai rappresentanti dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili (maggio 1993), ha affermato che le stragi di mafia del 1993 furono fatte, sostanzialmente, per spianare la strada a “nuove entità politiche”: “L'attentato al patrimonio artistico e culturale dello stato assumeva una duplice finalità: orientare la situazione in atto in Sicilia verso una prospettiva indipendentista, sempre balzata fuori nei momenti critici della storia siciliana, e organizzare azioni criminose eclatanti che, sconvolgendo, avrebbero dato la possibilità ad una entità esterna di proporsi come soluzione per potere riprendere in pugno l'intera situazione economica, politica e sociale, che veniva dalle macerie di Tangentopoli”.
Come Buscetta diciotto anni fa davanti alla commissione parlamentare Antimafia, nemmeno Grasso ha fatto il nome di questa “entità politica” a cui la mafia, facendo le stragi, avrebbe dato la possibilità di proporsi per l'assunzione del potere sulle macerie della Prima Repubblica, distrutta da Tangentopoli, ma come allora fu fatale pensare a Giulio Andreotti, così questa volta è stato inevitabile pensare a Forza Italia e a Silvio Berlusconi. Grasso ha smentito recisamente (“Non ho mai parlato di Berlusconi e di Dell'Utri”, ha detto in polemica con Giuliano Ferrara) e ha piuttosto rinviato i sorpresi e gli scandalizzati a quanto è stato raccolto e depositato in materia in anni di indagini e di dichiarazioni di “pentiti” negli archivi giudiziari: che è appunto come rinviare a Berlusconi e a Dell'Utri, iscritti per anni nel registro degli indagati dalle procure di Caltanissetta e di Firenze come presunte “entità” mandanti esterni alle stragi.
Sia a Caltanissetta che a Firenze si sono dovuti rassegnare, dopo aver esaurito nelle indagini tutto il tempo concesso dalla legge, comprese le proroghe chieste e ottenute, a chiedere l'archiviazione, riconoscendo di non avere potuto raccogliere, a riscontro e a sostegno delle “rivelazioni” dei “pentiti”, nemmeno quel minimo indispensabile necessario per almeno tentare un processo. E tutte le “rivelazioni” dei “pentiti” a proposito di Berlusconi e Dell'utri mandanti delle stragi nel corso di quindici anni sono finite in archivio, come tutte le indagini in materia e come tutti i teoremi dei cosiddetti “sistemi criminali”, che è la massima teorizzazione scientifica della “entità”, alias “terzo livello”, che ordina e manda sulla mafia, quella che Giovanni Falcone definiva “l'enorme sciocchezza”: da quelle del primo “pentito” che aveva parlato di Berlusconi e di Dell'Utri, che fu Salvatore Cancemi, a quelle dell'ultimo, in ordine di tempo, che è Gaspare Spatuzza.
Salvatore Cancemi ci aveva messo sei anni, dopo il suo “pentimento”, a costruire pezzo per pezzo le sue accuse contro Berlusconi e Dell'Utri – ma aveva avvertito che “la mia mente è come una vite arruginita che si svita lentamente” – procedendo a rate e a progressive intuizioni e deduzioni: prima aveva “intuito” che il pizzo che la Fininvest pagava alla mafia per proteggere le sue antenne in Sicilia non era in realtà un pizzo, ma un finanziamento pagato anche alla vigilia della strage di Capaci, e magari servito a comprare il tritolo per ammazzare Giovanni Falcone; due anni dopo ha raccontato di aver appreso da un suo sodale, alla vigilia della strage di Capaci, che due “persone importanti” erano venute in Sicilia a incontrare il capo dei capi Totò Riina, ma non gli avevano detto chi fossero; dopo altri due anni, si era ricordato che Riina in persona gli aveva parlato di Berlusconi e Dell'Utri, vantandosi di averli “‘nte manu”; e alla buonora, dopo un anno ancora, aveva concluso per “deduzione logica” e mettendo insieme le precedenti rivelazioni che erano stati Berlusconi e Dell'Utri a chiedere a Riina di uccidere Falcone e Borsellino. Eppure Cancemi ha convinto molti pubblici ministeri e di tutto rispetto, come Luca Tescaroli e Nino Di Matteo (i quali pertanto si rifiutarono di firmare a Caltanissetta il decreto di archiviazione delle indagini a carico di Berlusconi e di Dell'Utri), e fino al pm Anna Maria Palma, che è rimasta famosa, non fosse per lo scalpore che provocò, per aver affermato in aula, nel corso della sua requisitoria finale al processo Borsellino ter per la strage di via D'Amelio, che “le rivelazioni del pentito Salvatore Cancemi sono pienamente attendibili” ed “è stato sufficientemente provato” quanto da Cancemi riferito, e cioè che sarebbero stati provati i rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con Riina alla vigilia della strage di Capaci, e che ormai era solo da stabilire, così dice la signora Palma in aula, “se la strage venne compiuta da Cosa Nostra su richiesta dei soggetti esterni citati dal pentito Salvatore Cancemi, o se invece la strage sia stata fatta nella inconsapevolezza di questi ultimi, nella convinzione tuttavia di fare loro un favore”.
Salvatore Cancemi è stato poi definito “inattendibile” in sentenza da una dozzina di tribunali ed è stato ripetutamente condannato senza riconoscergli le attenuanti previste dalla legge sui pentiti, ed è persino stato condannato all'ergastolo. Su di lui, e soprattutto sui rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con Riina alla vigilia delle stragi, si deve essere ricreduta da tempo anche il pm Anna Maria Palma, che da qualche anno ha accettato la carica di capo di gabinetto del presidente del Senato Renato Schifani.
L'ultimo “pentito”, Gaspare Spatuzza, ha tenuto un comportamento molto più lineare di quello di Cancemi, e tuttavia è stato più sfortunato di lui, forse perché ha parlato troppo tardi e fuori tempo, ed è stato gestito frettolosamente e mandato in aula allo sbaraglio, prima ancora che sulle sue “rivelazioni” su Berlusconi e Dell'Utri fosse stata almeno tentata la ricerca dei riscontri. Eppure Spatuzza è certamente credibile, e ha indicato riscontri inoppugnabili, ed è stato unanimemente creduto quando ha confessato di aver partecipato personalmente alla strage di via D'Amelio, dove furono assassinati Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, e di essere stato lui a rubare l'auto e a farla imbottire di tritolo e a portarla sul luogo della strage, mandando così letteralmente all'aria quindici anni di indagini e tre processi in primo grado, in Appello e in Cassazione e dimostrando che dopo diciotto anni dalla strage di via D'Amelio, all'ergastolo ci sono gli innocenti e i veri responsabili sono in libertà.
E anche il racconto che Spatuzza fa a proposito della conversazione avuta nel gennaio del ‘94 a un tavolo del Caffè Doney in via Veneto a Roma con il capo della sua “famiglia” mafiosa, uno dei fratelli Graviano, è più che plausibile e abbastanza convincente. Spatuzza, che ha partecipato personalmente a tutte le stragi di mafia, e anche a quelle ultime fatte fuori della Sicilia nel continente, dopo la cattura di Riina, e di queste ultime non ha capito lo scopo e l'utilità, e se ne è stancato, è stato chiamato dai Graviano a Roma per fare ancora una strage, quella programmata allo stadio Olimpico alla fine della partita. Un attentato che avrebbe dovuto far saltare in aria il pullman con un centinaio di carabinieri (strage che non riuscì perché l'auto imbottita di tritolo non esplose per un difetto al detonatore). Spatuzza al tavolo del Caffè Doney lamenta con Graviano la sua stanchezza e il suo scetticismo sull'utilità e i vantaggi di queste stragi sul continente e sembra refrattario a partecipare a questa nuova strage dell'Olimpico, ma Graviano lo rincuora e lo incoraggia: sì, le stragi sono servite, gli dice, e anche e soprattutto queste che abbiamo fatto sul continente, tant'è che “persone fidate” e potenti ci hanno finalmente messo “l'Italia nelle mani”, e gli fa capire che queste persone sono “quello di Canale 5” e il “senatore”, vale a dire, senza farne i nomi, Berlusconi e Dell'Utri. Cosa Nostra ha fatto ormai l'accordo con la nuova “entità” politica, e però bisogna fare quest'ultima strage. E' più che plausibile che il boss per rincuorare e convincere il suo scherano, si sia inventato e gli abbia raccontato tutto questo ed altro ancora (che boss sarebbe il Graviano se non raccontasse ai suoi picciotti che lui, come tutti i boss, è amico e tratta con i potenti, e lui solo sa anche di politica e di “entità”, e che ormai ha “l'Italia nelle mani”?).
Ed è probabile che Spatuzza sia rimasto tutt'altro che convinto (come possono “quelli di Canale 5”, si sarà magari domandato tra sé e sé, che non hanno ancora fatto il partito, non si sono ancora presentati alle elezioni, non le hanno ancora vinte, non hanno ancora il governo del paese e “l'Italia nelle mani”, e l'hanno già passata a Cosa Nostra? E comunque, se l'accordo è fatto, questo non può non esserselo chiesto, e sempre tra sé e sé, perché ancora una strage e per ammazzare cento carabinieri, e non succede che con i carabinieri salta in aria anche l'accordo? E' forse anche per questo che il detonatore che gli è stato affidato non ha funzionato.
Sarebbe stato prudente, prima di mandare Spatuzza a testimoniare in aula al processo contro Dell'Utri, fare delle verifiche, quanto meno risentire in proposito i fratelli Graviano, ma avevano troppa fretta (il processo di appello contro il senatore Dell'Utri è alle ultime battute, il pm aveva già iniziato la requisitoria finale e l'ha interrotta due volte, una volta per proporre la testimonianza di Massimo Ciancimino, che la Corte ha rifiutato, e la seconda per sentire Spatuzza, il processo sarebbe già dovuto finire). Così hanno mandato Spatuzza allo sbaraglio, senza il minimo riscontro al suo racconto probabilmente sincero, mal gestito persino dal pm in aula, contestato dallo stesso presidente della Corte, più ancora che dagli avvocati della difesa, e alla fine smentito e rinnegato dagli stessi fratelli Graviano (e se invece avessero ammesso di avergli raccontato al bar quelle frottole su Berlusconi e Dell'Utri, come avrebbero fatto a provare che non erano frottole e a dimostrare dove, come e quando avevano mai incontrato e trattato con “quelli di Canale 5”?.
E tuttavia è stato Spatuzza, sia pure non confermato dai Graviano e dal minimo riscontro, a fornire l'occasione per rilanciare. Dopo diciotto anni, l'eterna storia dell'“entità”, questa volta a carico di Berlusconi e di Dell'Utri, sperando che funzioni, se non addirittura a montarci un processo per strage, almeno a puntellare e ad esaltare una sentenza di conferma nel processo d'Appello della condanna del senatore Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, una condanna per un reato inesistente nel codice, e che non si nega a nessuno. E alla bisogna soccorrono anche le sedute spiritiche a base di pizzini, di papelli e di “trattative” tra lo stato e la mafia, che sta recitando da due anni Massimo, il figlio di Vito Ciancimino, che per salvare dal sequestro il tesoretto del padre gira per tre o quattro procure, raccontando il contrario di quanto il padre ha detto, e ha anche scritto, negli ultimi mesi di vita. Rivelatrice, una tra le mille “rivelazioni” del figlio del corleonese vorrebbe Silvio Berlusconi, piuttosto che come “entità” che gestisce Cosa Nostra, invece come “vittima della mafia” e “ricattato da Dell'Utri”. Massimo Ciancimino per l'occasione finge di fare il ventriloquo del padre defunto, ma in realtà interloquisce squisitamente con i pm, e soprattutto con il sostituto procuratore Antonio Ingroia, che ne fece la tesi centrale della requisitoria con cui chiese al processo di primo grado la condanna di Dell'Utri, ed è il pm che più degli altri sta gestendo da due anni il figlio di Vito Ciancimino.
“Attenzione – ha ammonito Ingroia i giudici al termine della requisitoria finale al processo di primo grado contro Dell'Utri – a fare di Bernardo Provenzano un'icona. La mafia non è solo lui. Bisogna accendere i riflettori sui rapporti tra Cosa Nostra e il potere politico, perché il vero nodo è la politica... Crollata con la Prima Repubblica la Democrazia cristiana, Cosa Nostra si è trovata nella necessità di trovare nuovi referenti in politica. Vi erano due opzioni in seno a Cosa Nostra, una più radicale che faceva capo al cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, che proponeva di dare vita a un partito di tipo secessionista, a cui fu cominciato anche a dar vita e con il nome di ‘Sicilia libera', e una tesi più moderata, che faceva capo a Provenzano, e che era per la linea della contrattazione con referenti politici nuovi e più affidabili”. Secondo Ingroia (ma anche secondo il teste della corona Massimo Ciancimino), sarebbe stato Provenzano a puntare su Marcello Dell'Utri, già da tempo ambasciatore di Cosa Nostra presso Silvio Berlusconi: Dell'Utri – in questa versione – stava dando vita, forzando la mano allo stesso Berlusconi e usando i mezzi e le strutture di Publitalia da lui diretta, a un partito nuovo capace di raccogliere l'eredità della Dc e conquistare la maggioranza e il governo del paese.
A questo punto, secondo Ingroia, per decidere tra le due opzioni, quella di Bagarella e quella di Provenzano, furono consultate le “famiglie”, si svolsero in Cosa Nostra una sorta di “primarie”, e prevalse a maggioranza la tesi di Provenzano. “Fermo restando – tiene a precisare Ingroia – che i sostenitori, gli iscritti e i milioni di elettori di Forza Italia nulla sapevano e potevano sapere, e men che mai potevano sospettare che Forza Italia fosse il partito della mafia”, e che almeno all'inizio lo stesso Berlusconi era “inconsapevole” che il disegno di Dell'Utri fosse quello di creare un partito “disponibile” verso la mafia, come lo era stata la Dc di Andreotti e del “quieto vivere”. All'inizio, Berlusconi fu inconsapevole, quando se ne è reso conto, è stato consapevole e “vittima”, “ricattato”, come dice il Ciancimino Jr. Ed è su questo disegno che ha puntato Provenzano per imporre il nuovo corso di Cosa Nostra, quello della mafia “sommersa” e “invisibile”, e per diventarne, dopo la cattura di Riina e fino a che non è stato a sua volta catturato, il nuovo capo. Ma attenzione: il vero inventore, e in definitiva il vero nuovo capo, sempre secondo Ingroia, non è Provenzano, ma Dell'Utri. Provenzano non ha fatto che andargli dietro, restando a vivere nelle stalle, mentre il partito di Berlusconi e di Dell'Utri si installava a Palazzo Chigi: “Provenzano è il folklore – conclude Ingroia – la realtà è Dell'Utri”.
L'entità è stata evocata da Grasso alla vigilia della sentenza al processo d'Appello di Dell'Utri. Ma anche alla vigilia della sentenza del secondo processo intentato dalla Procura di Palermo contro il generale Mori, quello della “trattativa” dello stato con la mafia attraverso Vito Ciancimino per far cessare la stragi, e che a un certo punto viene sostituito da Dell'Utri, che tratta direttamente con Provenzano: Mori non ha fatto che precedere e preparare la strada a Dell'Utri. L'entità non è tanto Forza Italia, i suoi iscritti e i suoi elettori “inconsapevoli”, e nemmeno personalmente Silvio Berlusconi, all'inizio “inconsapevole” poi “consapevole” e “vittima”, ma sarebbe dunque il senatore Marcello Dell'Utri. Sarebbe tutto lui, Dell'Utri, sarebbe lui l'entità, il terzo livello, il mandante esterno occulto a volte coperto, il pezzo dello stato, l'Antistato, il servizio deviato. A meno che tutto questo non sia, come diceva Giovanni Falcone, soltanto “un'enorme sciocchezza”.
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