Sorpresa in serbo
La salvezza dell'Africa passa attraverso un serbo di nome Milo. Almeno così lo chiamano in Ghana, dove due anni fa ha fatto licenziare un tecnico che è un mito del calcio locale, un certo Sellas Tetteh, perché così voleva il presidente della Repubblica.
La salvezza dell'Africa passa attraverso un serbo di nome Milo. Almeno così lo chiamano in Ghana, dove due anni fa ha fatto licenziare un tecnico che è un mito del calcio locale, un certo Sellas Tetteh, perché così voleva il presidente della Repubblica. E che adesso si trova nella scomoda posizione di chi ha fatto fuori la sua nazione, la Serbia, dove il Mondiale era sentito come qualcosa di epocale. Milovan Rajevac è un signore di 56 anni che un giornale inglese ha perfidamente paragonato a un professorino di provincia. In patria ha allenato squadre minori, con un breve passaggio alla Stella Rossa di Belgrado. Ma da decenni i tecnici slavi godono in Ghana di una corsia preferenziale, che viene da vecchi rapporti politici dell'epoca socialista e da procuratori capaci di fiutare gli affari.
E poi Rajevac è uno degli uomini più fidati di Bora Milutinovic, il vecchio volpone delle panchine che ha allenato in mezzo mondo e ora promuove la candidatura del Qatar ai Mondiali di chissà quando. Grazie ai suoi buoni uffici Rajevac è riuscito a ottenere uno stipendio di 36mila euro al mese. Ma il caso Rajevac non è certo una novità. Se è vero che l'Africa ospita la coppa del Mondo, sulle cinque squadre presenti all'inizio della competizione ben quattro sono guidate da tecnici stranieri (fa eccezione l'Algeria, che però ha un tradizione diversa). Importa tecnici. Una forma di colonizzazione che almeno nel calcio non è mai finita, peraltro con risultati non troppo confortanti. Prendiamo Sven Goran Eriksson, che solo un miracolo può tenere ancora in Sudafrica, assunto dalla Costa d'Avorio senza parlare francese e senza conoscere nulla di quel paese, o il brasiliano Parreira, nei confronti del quale nonostante la vittoria sulla Francia e un'uscita dignitosa, si è aperto un processo pubblico.
“Un milione e duecentomila euro all'anno, con quali risultati? E' sopravvalutato e troppo costoso”, scriveva un giornale popolare di Johannesburg chiedendosi se non fosse il caso di cominciare ad assumere un allenatore locale. Per non parlare dei risultati disastrosi dello svedese Lagerback con la Nigeria, che dopo aver fallito la qualificazione con la sua nazione lo scorso febbraio aveva preso il posto di un signore di Lagos che invece era riuscito ad arrivarci, in Sudafrica, con le sue forze. C'è il caso di Paul Le Guen, il francese pluridecorato in patria che con il Camerun era partito con grandi ambizioni, per finire malissimo.
Quella dello straniero è una tradizione africana. Quasi una fissazione, al di là delle vicende storiche. Viene ancora considerato, un modo per uscire dalla preistoria calcistica. Già nell'Egitto che partecipò alla Coppa Rimet del 1934 chi guidava la baracca era uno scozzese, un certo James McRae, mentre il Marocco del 1970 era guidato da uno jugoslavo. Secondo Peter Alegi, un professore dell'Università del Michigan che è uno dei maggiori conoscitori del calcio africano, “tutto questo viene dal passato coloniale ma anche dal fatto che non c'è mai stata una vera scuola di formazione di tecnici a livello locale”.
Ma, dice, le cose potrebbero cambiare fra pochi anni quando l'ultima generazione di calciatori comincerà a ritirarsi: “E qualcuno potrebbe iniziare a fare il tecnico”. Però al momento il semisconosciuto Rajevac, l'uomo senza carisma, quello che lo vedi in panchina e non ti sembra che possa comandare lui, regge. E il bello è che qualcuno lo accusava, in Ghana, di non vivere con passione la partita contro la sua Serbia. Proprio lui che questo incrocio coi serbi l'ha pagato caro. Qualche mese fa, dopo i sorteggi, gli hanno abbattuto con le ruspe la casa di montagna davanti alla moglie per una storia mai chiarita di permessi. “Ma le carte erano tutte in regola – ha spiegato – sono sicuro che volevano intimidirmi e costringermi a lasciare il Ghana”. Hanno tirato fuori la storia di Blagoja Vidinic, lo jugoslavo che ai Mondiali del 1974 in Germania perse con lo Zaire per nove a zero contro la Jugoslavia e fu accusato di essersela venduta. I giocatori fecero una brutta fine, mentre il tecnico si salvò perché Mobutu non riuscì a mettergli le mani addosso. Rajevac può consolarsi. Se le cose dovessero andare male, al massimo ad Accra richiameranno il vecchio Sellas.
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