Salvati guarda con scetticismo al D'Alema europeo che rifonda la socialdemocrazia
Che cosa può pensare un padre fondatore del Pd (Michele Salvati), uno che vedeva con sospetto un Massimo D'Alema in prima linea nell'allora nascente Partito democratico, a vedere oggi un Massimo D'Alema non solo ispiratore della maggioranza del Pd ma addirittura alla guida dei “nuovi socialdemocratici” d'Europa, e cioè al vertice della Foundation for european progressive studies (Feps), fondazione di raccordo e rilancio degli eurosocialisti di cui ha parlato su questo giornale Andrea Peruzy, segretario generale della dalemiana Italianieuropei?
Che cosa può pensare un padre fondatore del Pd (Michele Salvati), uno che vedeva con sospetto un Massimo D'Alema in prima linea nell'allora nascente Partito democratico, a vedere oggi un Massimo D'Alema non solo ispiratore della maggioranza del Pd ma addirittura alla guida dei “nuovi socialdemocratici” d'Europa, e cioè al vertice della Foundation for european progressive studies (Feps), fondazione di raccordo e rilancio degli eurosocialisti di cui ha parlato su questo giornale Andrea Peruzy, segretario generale della dalemiana Italianieuropei?
Salvati condivide il timore di chi, nel Pd, pensa che la “rifondazione socialdemocratica” possa, con una repentina svolta a sinistra, nuocere a un già pericolante Pd. Poi dice: “E pensare che è stato lo stesso D'Alema a parlare di amalgama malriuscita a proposito del Pd.
Ma è lui uno dei responsabili della mancata riuscita. C'è chi, come i cristiano sociali, ha creduto alla fusione vera e chi non ci ha mai creduto. D'Alema è uno di questi”. E però Matteo Orfini, membro della segreteria Pd e braccio destro di D'Alema a Italianieuropei, dice che l'approdo dell'ex premier alla Feps “prevede un'apertura” ed è “il segno di un interesse europeo per la peculiarità del Pd” che risponde “all'esigenza delle forze socialiste di guardare oltre e costruire un campo più ampio per nuovi programmi e nuove culture politiche”.
Era il 10 aprile 2003 e il professor Salvati, proprio dalle colonne del Foglio, lanciava un appello per la creazione di un Partito democratico che realizzasse l'unità dei riformisti. Tra le personalità essenziali all'opera, Salvati citava Romano Prodi e Francesco Rutelli, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani e Pierluigi Castagnetti, Arturo Parisi, Sergio Chiamparino e molti altri dirigenti del Pd di ieri e di oggi, ma volutamente lasciava da parte Massimo D'Alema e Franco Marini. Motivazione: “Non perché il loro contributo al Pd sia giudicato poco significativo… ma perché sono segnati da un ruolo dominante in scommesse politiche recenti che puntavano su esiti radicalmente diversi da quello che stiamo auspicando”. D'Alema, diceva Salvati, mirava “a un ruolo egemonico dei Ds sulla base dell'errata analogia tra l'Italia e i paesi ‘normali', dove l'alternanza avviene tra un partito conservatore e un partito socialdemocratico”, e Marini “pensava a un ruolo del suo partito non schierato organicamente con la sinistra, perché non voleva legarsi le mani”. Oggi Salvati riflette su D'Alema al Feps e distingue tra un nucleo di problemi comuni alle sinistre europee e una serie di difficoltà tipicamente italiane “per cui ora risulta fuorviante sparare nel mucchio”: “Come le socialdemocrazie europee non ebbero grandi meriti per il loro straordinario successo nel Dopoguerra e fino agli anni Ottanta, così non hanno questi straordinari demeriti oggi. Allora sia le componenti socialdemocratiche sia quelle cristiano sociali trovarono una situazione internazionale favorevole, dovuta a Bretton Woods e all'industrializzazione che favoriva l'organizzazione di grandi masse operaie in partiti e sindacati.
Senza contare che l'Urss era ancora concorrenziale come sistema economico-politico. Ecco quindi la necessità di puntare su piena occupazione e welfare anche in un contesto capitalistico. Oggi è diverso. C'è la recessione, e c'è stata una fase di frantumazione in seno ai ceti lavorativi. Fattori che, uniti all'immigrazione in crescita, hanno generato reazioni più facilmente sfruttabili dalle destre. Oltre a queste difficoltà generali, in Italia si scontano vecchi problemi di inefficienza della Pubblica amministrazione e la mancanza di spirito civico. Abbiamo scommesso sulla creazione di un partito laico fatto da liberali, socialisti e cattolici. E' andata male, perché si era in mano a ceti politici ex democristiani ed ex comunisti e perché i socialisti, già lontani dopo il '92, si sono ulteriormente allontanati”.
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