Bravo Pennacchi
“Canale Mussolini” racconta l’Agro pontino, che prima di esser bonificato era tutta palude
Resta un solo candidato al premio Strega da sottoporre alla prova di pagina 69, finora non abbiamo avuto molta soddisfazione. A parte Paolo Sorrentino, che di mestiere fa il regista e avrebbe bisogno di un editor sveglio, gli altri sono sotto la sufficienza: Silvia Avallone per eccesso di smarrimenti adolescenziali, Matteo Nucci per non aver tagliato via le parti noiose, Lorenzo Pavolini per aver scritto senza rileggere (e si sa che a tutti la prima stesura viene sghimbescia). Oggi tocca a “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi. Lo pubblica Mondadori, che al Ninfeo di Villa Giulia trionfa da tre anni: con Niccolò Ammaniti, con Paolo Giordano, per interposta Einaudi con Tiziano Scarpa. Polemiche nel primo caso, contro il bellissimo “Come Dio comanda”; per il resto tutti zitti e riverenti – tranne lo sconfitto Scurati. “Canale Mussolini” racconta l’Agro pontino, che prima di esser bonificato era tutta palude (chi come noi impara tutto al cinema, l’ha visto neorealisticamente ritratto nel film di Augusto Genina su santa Maria Goretti, “Il cielo sulla palude”).
Riga 2, visto che la prima è monca: “E il giorno dopo mio zio Pericle è andato a piazza San Sepolcro a Milano ed era il 23 marzo 1919 e c’era pure il Mussolini e un altro po’ di bella gente, e tutti insieme hanno fondato il fascio”. Non male, a partire dall’orecchio per la chiacchiera. Pennacchi ha qualcosa di interessante da raccontare oltre al suo ombelico, e la presenza di zio Pericle potrebbe suggerire una saga familiare. Se poi ci fosse un po’ di autobiografia, scoop: Pennacchi insieme con Lorenzo Pavolini sarebbe uno dei pochi italiani a confessare un fascista in famiglia. Sospettiamo che la storia sia raccontata bene, quindi abbiamo voglia di andare avanti. A zio Pericle manca il coraggio di annunciarsi a Mussolini. “’Che vuoi che gliene freghi ormai dei Peruzzi?’ ha pensato: ‘L’importante è che faccia gli interessi nostri’ e così è diventato fascista. Anzi, lo ha fatto lui il fascismo. O meglio, c’era pure lui quando lo hanno fatto”.
Poniamo il caso – può capitare – che a un lettore non importi nulla delle paludi pontine, perché predilige i romanzi ambientati tra le mille luci di New York. Un po’ di curiosità verrebbe anche a lui, a vedere il Mussolini così da vicino. O a vedere precisamente messo a fuoco un tipico carattere nazionale, nell’alternarsi tra “l’ho fatto io il fascismo”, “ero li quando è successo” (manca solo la terza tappa: “non c’ero e non ne so niente”). Pennacchi scrive bene, e va veloce abbastanza per tenere sveglio il lettore. Andiamo a pagina 99: è passato un anno, le camicie nere sono state cucite, anche i mocciosi di famiglia che ancora camminano a quattro zampe “girano sotto i tavoli con il pugnale tra i denti”. I rossi contrattaccano occupando le fabbriche: “Era la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che aveva messo su dei Consigli di fabbrica tali e quali ai soviet”. Prova superata con onore, per l’ex operaio di Latina diventato romanziere.
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