Le linee di frattura in una maggioranza a rischio implosione

Salvatore Merlo

Gianfranco Fini lo aveva preannunciato in un colloquio con il Foglio: “La legge sulle intercettazioni la si può anche calendarizzare tra il 27 e il 29 luglio. Ma sarebbe irragionevole, meglio rinviare a settembre e permettere il confronto”. Niente di strano dunque che il presidente della Camera, di fronte alla conferenza dei capigruppo, abbia sollevato il sopracciglio per la decisione della maggioranza di calendarizzare il testo sugli ascolti.

    Gianfranco Fini lo aveva preannunciato in un colloquio con il Foglio: “La legge sulle intercettazioni la si può anche calendarizzare tra il 27 e il 29 luglio. Ma sarebbe irragionevole, meglio rinviare a settembre e permettere il confronto”. Niente di strano dunque che il presidente della Camera, di fronte alla conferenza dei capigruppo, abbia sollevato il sopracciglio per la decisione della maggioranza di calendarizzare il testo sugli ascolti telefonici proprio per il 29, contravvenendo agli auspici di “pacatezza” manifestati dal Quirinale e alle richieste dell'opposizione. La contrarietà di Fini nei confronti dell'accelerazione (di per sé non una novità) rientra nel più complesso rapporto dialettico tra il presidente della Camera, Silvio Berlusconi e il resto del Pdl all'interno del quale sempre di più l'ex leader di An si sente – anche suo malgrado – un corpo estraneo. Fini cerca un negoziato sugli organigrammi e sul proprio futuro all'interno del Pdl, una trattativa che tatticamente lambisce sia la manovra economica sia il ddl intercettazioni contribuendo a ingarbugliare il già controverso iter dei due provvedimenti e a disegnare uno scenario di stallo politico all'interno degli equilibri del Pdl e all'interno del governo.

    Il conflitto tra i due cofondatori,
    lungi da uno scioglimento positivo, rappresenta soltanto una (e forse nemmeno la più significativa) delle ormai numerose linee di frattura che attraversano il centrodestra. Il premier appare attorcigliato nei fili di troppi dossier che né lui né il suo entourage sembrano riuscire a tagliare. Prima i casi giudiziari che hanno coinvolto Denis Verdini e Guido Bertolaso, coi contraccolpi di immagine, poi il dimissionario Claudio Scajola che ha lasciato una sedia vuota in Consiglio dei ministri. Una sedia coperta ancora dall'interim di Berlusconi, il quale fatica tra le pressioni che riceve da alleati e compagni di partito. La vicenda dell'ex ministro dello Sviluppo economico assilla i pensieri meno felici del premier. Il 5 maggio scorso il Cav. aveva spiegato a Giorgio Napolitano di voler tenere l'interim al massimo “per qualche giorno” ma ancora la settimana scorsa, prima di partire per il G20, a più di un mese di distanza, ha confidato di voler trovare una soluzione al rientro dal viaggio in Sudamerica. Chissà. L'impressione è che la quadra sia lontana, specie adesso che la questione del ministero vacante si è complicata con la vicenda di Brancher e i nervosismi della Lega. Il partito di Bossi, che mira al ministero dell'Agricoltura, aveva già complicato i piani del Cav. sostenendo per convenienza la candidatura dell'attuale ministro delle Politiche agricole Giancarlo Galan (puntando a occuparne il posto). Anche per questo Berlusconi, preoccupato dalle parallele rivendicazioni finiane e da quelle degli ex FI, non si è mai risolto a prendere una decisione sulla quale è ora precipitato anche il caso Brancher con un'esplosione di nervosismo collettivo. Si è trattato delle prime avvisaglie di problemi a venire. Come dice un importante dirigente del Pdl, sono “contese che sarebbero fisiologiche se si riuscisse a venirne a capo”. Cosa che non succede. Col passare del tempo l'impressione anche all'interno del Palazzo, è che la maggioranza viva alla giornata.

    Così nel tempo, all'impasse sugli equilibri interni si sono aggiunti altri problemi sempre collegati sia alle divisioni nel Pdl, dove l'antitremontismo non è più un collante sufficiente (in FI proliferano le correntine), sia ai complessi rapporti con Bossi. Un esempio è il conflitto a geometria variabile tra gli enti locali e il governo sui tagli previsti dalla manovra; una battaglia che attraversa gli schieramenti e che vede un pezzo da novanta come il governatore lombardo, Roberto Formigoni, alla testa del gruppo dei governatori di centrodestra, tutti – in sostanza – contro Giulio Tremonti. In mezzo si posiziona la Lega che conta ben due governatori, Luca Zaia e Roberto Cota, oltre all'attivissimo sindaco di Varese, Attilio Fontana. E' un fatto che la qualità dell'asse che unisce Tremonti alla Lega si sia un po' guastata. Cosa che rischia di indebolire, di riflesso, il muro portante dell'alleanza di governo. Chissà. Il blocco originario dei colonnelli padani, legati al ministro dell'Economia, è meno monolitico che in passato e una nuova generazione di dirigenti, più inclini ad ascoltare gli umori della base, comincia forse a mettere in dubbio l'amicizia con Tremonti. Maturano criticità nei confronti dell'azione di governo (chiedere a Manuela Dal Lago sul patto di stabilità). E' probabile che nello stato maggiore leghista sse ne parli venerdì prossimo nel corso del consiglio federale della Lega.

    Una parte dei fedelissimi bossiani,
    da Rosy Mauro a Marco Reguzzoni passando per Federico Bricolo, a denti stretti, sembra ammettere che il governo ha fatto ancora troppo poco per le ragioni sociali della Lega. Bossi non ha ancora deciso come modulare queste voci, le usa contemporaneamente nel coro, alternandole a seconda della necessità del momento. Ma presto si troverà a dover scegliere, silenziandone una delle due. D'altra parte hanno ragione Maroni e Castelli quando ricordano che “siamo pur sempre un partito leninista”. A questo proposito è stata paradigmatica la meccanica che ha portato prima alla nomina di Brancher e poi allo scontro con il Quirinale e alla rinuncia, da parte del neo ministro, del legittimo impedimento. Si intuisce molto sulla strategia bossiana e si delinea un principio di frattura ancora arginabile, ma pericolosa col Pdl. Sembra che la nomina di Brancher fosse stata benedetta da una parte della Lega salvo poi vedere un'altra fazione leghista esporsi contro l'uomo che per anni era stato – a fianco di Tremonti – il più diretto canale tra Berlusconi e Bossi. Il leader ha interpretato, in momenti diversi, entrambe le parti in commedia: prima ha festeggiato la nomina di Brancher salvo poi stigmatizzarla. Il caso Brancher è stato sintomatico. In un colpo solo ha scatenato (e rivelato) spinte centrifughe nella Lega, malumori nella ex FI (“ci hanno preso in giro”) e nel gruppo dei finiani (tentati in queste ore di appoggiare una mozione di sfiducia a Brancher promossa dall'Idv), oltre ad aver contribuito a far saltare la mediazione istituzionale cui il capo dello stato, con grande riserbo, si era acconciato in materia di intercettazioni. “Un pasticcio gigantesco”, lo definisce uno degli uomini più vicini al premier: “Ma Berlusconi ne è stato vittima e ora dobbiamo andare avanti”. Non fosse che anche questa vicenda non è stata affatto ricomposta: “Si vive nella speranza che il tempo sistemi tutto. La verità – spiega la stessa fonte – è che solo la mancanza di un'alternativa di sistema finora ci ha salvato dai pasticci”.

    Nessuno dei casi fin qui citati, che talvolta sembrano aver fiaccato persino l'ottimismo del Cav. (“guardo con invidia chi va in pensione”), ha trovato soluzione. Anche con Fini non si fa pace, ma neanche si fa del tutto la guerra: sia il Cav. che l'ex leader di An sanno di essere costretti a convivere quantomeno per mancanza di alternative. Entrambi, in privato, si autorappresentano come parte lesa e “stufi” l'uno dell'altro; eppure nessuna delle soluzioni diplomatiche predisposte da Gianni Letta e dai legati finiani (su tutti Andrea Augello) ha trovato ascolto. Neanche le proposte più drastiche come quelle adombrate dal finiano Carmelo Briguglio e un po' da Fabrizio Cicchitto. Ovvero quella “separazione amichevole” che restituisca a Fini libertà e garantisca il Cav. dai rischi che percepisce intorno alla correntizzazione del Pdl (non incolpevoli gli ex colonnelli di An). Nemmeno la minaccia di riconquistare Pier Ferdinando Casini al centrodestra, presentata come la chiave algebrica per ridimensionare sia Bossi sia Fini sia Tremonti, ha mai assunto una forma che non fosse semplice boutade tattica. Al contrario l'entourage berlusconiano è riuscito nelle settimane passate, proponendo in gran segreto ai casiniani la poltrona di Scajola, a complicarsi la vita componendo un miscuglio esplosivo tra la vicenda Scajola e il ritorno dell'Udc. Bossi si era infatti subito agitato, Fini si era ingelosito e i generali berlusconiani avevano cominciato a spiegare ai giornali – a microfoni rigorosamente spenti – che “sarebbe una follia”. Dunque, ancora una volta, niente di fatto.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.