L'arrivo di D'Alema in Europa
Perché l'eurodalemismo fa così paura ai cattodemocratici italiani (soprattutto a quelli europei)
La nomina di Massimo D'Alema alla guida della più importante fondazione politica europea continuerà a far brontolare ancora a lungo la costola cattolica del maggior partito d'opposizione.
La nomina di Massimo D'Alema alla guida della più importante fondazione politica europea continuerà a far brontolare ancora a lungo la costola cattolica del maggior partito d'opposizione. Il fatto che nel suo discorso d'insediamento l'ex presidente del Consiglio abbia affermato che il Pd (“che non è un partito socialista”) ha il dovere di lavorare con il Pse per contribuire al rinnovamento del centrosinistra europeo non ha smesso di insospettire i cattodemocratici italiani. E la domanda che gira a Largo del Nazzareno è sempre la stessa: ma in che senso rinnovare? E soprattutto: ma non è che con la scusa dell'Europa D'Alema vuole spostare ancora più a sinistra il baricentro del Pd? Negli ultimi giorni su questo giornale abbiamo ospitato diverse riflessioni sulla piattaforma programmatica dell'eurodalemismo (la così detta “New Left”) formulata la scorsa settimana sul Foglio dal segretario generale di Italianieuropei, Andrea Peruzy. Per capire però una delle ragioni per cui il Pd discute ancora così animatamente intorno all'arrivo di D'Alema alla Feps bisogna studiare la particolarissima situazione in cui si trovano oggi i democratici in Europa. A Strasburgo la difficile coesistenza delle due principali anime del Pd (cattolici ed ex comunisti: sicuro proprio ex?) è infatti ancora più evidente di quella che esiste oggi sul piano nazionale, e la geografia del Parlamento europeo offre un quadro spietato dell'accidentato percorso di sintesi del Pd. I guai cominciano un anno fa, quando il Partito democratico (allora guidato da Dario Franceschini) si presenta alle elezioni europee senza aver risolto una questione non proprio secondaria: dove si andranno a sedere i deputati del Pd una volta eletti a Strasburgo? Mistero. Franceschini disse che i democratici si sarebbero dovuti accomodare, “in via del tutto transitoria”, sulle seggiole del Pse. E l'escamotage escogitato per non scatenare una rivolta di quei cattodemocratici che non avevano alcuna intenzione di “morire socialisti” fu quello di aggiungere, “in via del tutto transitoria”, un trattino di seguito alla sigla del Partito socialista europeo (Pse-Pd). Ecco: diciamo che l'espediente non ha funzionato nel migliore dei modi. Se è vero che oggi i democratici fanno parte del gruppo “Alleanza dei socialisti e democratici” in realtà i ventuno parlamentari del Pd in Europa si presentano in ordine decisamente sparso. C'è chi è iscritto al Pse. C'è chi fa parte soltanto del gruppo Alleanza dei socialisti e democratici. E c'è persino chi, pur essendo stato eletto nel Pd, in quella sigla Pse-Pd si riconosce così poco da aver scelto di iscriversi a un altro partito: il Pde (partito fondato da Bayrou e da Rutelli di cui fanno parte sei parlamentari del Pd: Silvia Costa, Guido Milana, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, Gianluca Susta e Patrizia Toia). “Il patto era semplice”, ci racconta Susta, membro della direzione nazionale del Pd che in Europa ha preferito stare lontano da quella strana creatura Pse-Pd. “A Strasburgo avevamo l'obiettivo di creare un nuovo contenitore che potesse essere rappresentativo della vera identità del Partito democratico. Ma la verità è che oggi in Europa ci presentiamo come se facessimo parte ancora dei Ds e della Margherita. E l'impressione è che il così detto eurodalemismo avrà molte difficoltà a risolvere questa contaddizione”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano