Biografia carceraria del fattore di Arcore (e della sua agonia)
Eroe o no, Mangano ha preferito galera e morte a un'accusa ingiusta
Nel 1974, quando Vittorio Mangano viene ingaggiato e sale ad Arcore a fare il fattore (e non lo “stalliere”), ha 33 anni e due o tre condanne per assegni a vuoto e per ricettazione. Ma non lo trovano, perché continuano a notificargli le condanne a Palermo, mentre ha la residenza ad Arcore con tutta la famiglia, suocera compresa. Lo trovano dopo un anno, quando vanno a indagare ad Arcore per il tentato rapimento, in cui Mangano non c'entra, di un ospite di Berlusconi.
Nel 1974, quando Vittorio Mangano viene ingaggiato e sale ad Arcore a fare il fattore (e non lo “stalliere”), ha 33 anni e due o tre condanne per assegni a vuoto e per ricettazione. Ma non lo trovano, perché continuano a notificargli le condanne a Palermo, mentre ha la residenza ad Arcore con tutta la famiglia, suocera compresa. Lo trovano dopo un anno, quando vanno a indagare ad Arcore per il tentato rapimento, in cui Mangano non c'entra, di un ospite di Berlusconi. Lo arrestano, ma lo rilasciano dopo una settimana.
Mangano se ne torna a Palermo, dove viene arrestato nel 1980 e viene processato per l'articolo 416, l'associazione a delinquere semplice (non c'era ancora il 416 bis (l'associazione mafiosa). Condannato, l'unica sentenza definitiva avuta da Mangano, sconta tutta la pena, si fa dieci anni di carcere ed esce nel 1990. Quattro anni dopo essere uscito dal carcere, nell'aprile del 1994, in perfetta coincidenza con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, viene “fermato” e successivamente arrestato per l'articolo 416 bis per reati “presumibilmente” commessi dopo il 1990. Non gli vengono contestati reati precisi, ma viene ripetutamente interrogato su Dell'Utri e Berlusconi. Viene prosciolto dal concorso in estorsione, ma viene accusato dell'omicidio di un picciotto. Comunque, nel luglio del 1999 la Corte di assise di primo grado lo condanna all'ergastolo, condanna che non diverrà mai definitiva perché Mangano muore l'anno dopo.
Nella sentenza la Corte stabilisce l'incompatibilità di Mangano con il carcere e la necessità di ricoverarlo in un centro clinico, dove deve essere curato e monitorato 24 ore su 24, per tenere costantemente sotto controllo la cardiopatia ipertensiva (pericolo incombente di infarto) e la vascolopatia cerebrale (pericolo incombente di ictus). Già quando era stato arrestato, Mangano aveva avuto un trauma cranico in seguito a un incidente automobilistico, una scapola fratturata e lesioni alla colonna vertebrale.
Mangano viene rinchiuso invece nel carcere duro di Pianosa, dove gli viene l'epatite e gli si formano delle placche alla carotide che gli riducono il flusso del sangue al cervello. Gli viene un ictus, lo mettono sulla sedia a rotelle e lo trasferiscono in un centro clinico. Due settimane per qualche accertamento e lo riportano a Pianosa. Gli viene un infarto, perde per una parestesia l'uso del braccio e della gamba destra. Viene trasferito al carcere duro di Secondigliano, peggio che a Pianosa, e in videoconferenza dall'aula di Palermo dove processano Dell'Utri viene interrogato su Dell'Utri e Berlusconi. Successivamente viene trasferito in barella nell'aula del processo a Palermo, e gli chiedono ancora di Dell'Utri e Berlusconi.
L'agonia di Mangano dura un anno. Il 20 giugno del 2000, a un anno dalla sentenza, il suo avvocato lo va a trovare e, attraverso i vetri, si rende conto che la situazione è precipitata e invoca i periti del carcere. Giallo come un limone per tutto il corpo, dalla cornea degli occhi alla punta dei piedi, le papille gonfie, l'epatopatia attiva, il fegato distrutto, gli trovano 18 litri di liquidi nella pancia, la cirrosi galoppante, i periti sconvolti denunciano gli “inspiegabili ritardi dei sanitari in carcere” e decretano che “non c'erano più spazi per interventi”.
Il 3 luglio la visita dei periti, il 4 luglio la diagnosi, il 5 luglio il procuratore di Palermo Pietro Grasso, appena insediatosi al posto di Caselli, firma in fretta per gli arresti domiciliari e Mangano viene scarcerato e viene trasportato in barella a casa. Il 23 luglio muore. Nell'ultima lettera alla moglie e alle figlie aveva scritto: “Non si baratta la dignità con la libertà”. E ha voluto dire che, piuttosto che accusare ingiustamente Berlusconi e Dell'Utri, ha preferito restare in carcere e morire.
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