L'etrusco ipnotico di Bortolotto che mi affascina nonostante la musica

Camillo Langone

Ma per chi scrive Mario Bortolotto? Sono mai esistiti lettori in grado di capirlo? Quali studi sono necessari per decifrare “la relazione tre a uno destinata a scarnirsi nell'opposizione binaria della prosodia giambotrocaica”? Non credo basti una laurea in linguistica, nemmeno con l'aggiunta di qualche anno di conservatorio, secondo me ci arriva solo Arbasino. Mi addentro nelle “Corrispondenze” pubblicate da Adelphi come fossero scritte in etrusco.

    Ma per chi scrive Mario Bortolotto? Sono mai esistiti lettori in grado di capirlo? Quali studi sono necessari per decifrare “la relazione tre a uno destinata a scarnirsi nell'opposizione binaria della prosodia giambotrocaica”? Non credo basti una laurea in linguistica, nemmeno con l'aggiunta di qualche anno di conservatorio, secondo me ci arriva solo Arbasino. Mi addentro nelle “Corrispondenze” pubblicate da Adelphi come fossero scritte in etrusco, incapace di comprendere il significato ma affascinato dal suono e sfidato da singole cultissime parole: “quissimile”, “equabile”, “specillare”, “amitto”, “chiaria”… Finalmente un elitista! Sono così rari gli autori che sopravvalutano i propri lettori, bisogna tenerseli cari. In confronto Piero Buscaroli (per dire un altro poco democratico scrittore di cose musicali) sembra un divulgatore, siccome la butta sempre in politica e la politica la capiamo tutti, grossolana com'è.

    Bortolotto dà per scontato, non spiega un accidenti,
    non fa nemmeno la carità di una nota anzi infierisce con certi suoi crudeli intercalari: “Brahms che, come è noto, s'era blandamente addormentato durante un'esecuzione di Liszt”; “il Largo del Serse haendeliano, noto anche alle pietre”… Il lettore che a malapena colloca Brahms e Liszt nello stesso secolo, e che di Haendel ha ascoltato forse un minuetto in una colonna sonora, si sente un ignorantone ed è ottimo, è proprio così che si deve sentire, come diceva Pound chi legge solo ciò che comprende appieno non estenderà mai la propria comprensione. Come dite? La scorrevolezza? L'intrattenimento? Per quella roba lì c'è la televisione.

    A questo punto devo comunicare che dell'argomento bortolottiano non me ne importa un fico: la musica classica, Dio me ne scampi. Sono un uomo semplice, detesto le complicazioni, le discussioni e le vie di mezzo, per me esistono solo sacro e profano e il primo è accompagnato dall'organo a canne e il secondo da batteria e chitarra elettrica. Fra la musica di Cristo e la musica di Dioniso si apre un vasto territorio di musica troppo umana, prima cortigiana e convenzionale, tutta riverenze e parrucche, poi romantica e sentimentale, tutta tisi e spettinature, il cui repertorio con la scomparsa delle passioni originarie è divenuto peggio che freddo, tiepido, aggettivo che nell'Apocalisse attira punizioni terribili. Secondo me le signore della Scala e i loggionisti del Regio alla fine dei giorni saranno vomitati. Se la musica classica è noiosa, la musica classica lirica è l'orrore. Verdi e Wagner sono due prepotenti, “Don Giovanni” è un testo fondamentale di Lorenzo Da Ponte molestato dagli archi e dai gorgheggi voluti da Mozart (mentre Lucio Battisti sul medesimo tema fu molto più rispettoso, i suoi accordi sostengono i versi preziosi di Pasquale Panella senza mai minarne l'intelligibilità).

    Su questo punto Bortolotto sembra darmi almeno in parte ragione, quando mostra come i massimi compositori italiani di musica strumentale siano stati costretti a emigrare, in fuga da platee drogate di belcanto: i malinconici casi di Scarlatti, Boccherini e Clementi. Grande è l'autore che riesce a farsi leggere a dispetto del contenuto, solo in virtù della forma (magari difficile come in questo caso, ma così foriera di godimenti intellettuali). Kingsley Amis a forza di frasi brillanti quasi mi convinceva della superiorità del gin tonic su ogni altra bevanda, vino compreso, e per gustare Gianni Brera valeva quasi la pena di sorbirsi una partita. Per fortuna i loro successori non sono all'altezza, altrimenti addio Lambrusco e snobismo anticalcio.

    In questi giorni di mondiale ho provato a leggere il cosiddetto erede di Brera per vedere l'effetto che fa ma gli articoli di Gianni Mura sono più blandi di un placebo: Gianni 2 condividerà con Gianni 1 il nome, la panza, la nascita lombarda e gli interessi eno-gastro-sportivi però scrive liscio liscio, senza ami che possano catturare il lettore casuale. Ecco, Bortolotto è assai più abile e il suo etrusco ipnotico non mi porta a teatro (ci vorrebbe un miracolo) ma riesce a spingermi verso Youtube e Schubert, Schumann, Liszt. Gli ultimi due, a giudicare dai brevi brandelli così sordidamente ricavati, mi appaiono capaci di provocare grandi caciare con un solo strumento ben pestato, il pianoforte, mentre il raffinato Quintetto del primo causami pesantezza alle palpebre, magari è anche colpa del caldo. Infine, nelle pagine croccanti di questo saggio dalla fantastica copertina vinaccia con fregi verdeoro, in un elenco di musiche dichiarate perfette trovo l'Italiana di Mendelssohn ed è vero, è bellissima, le manca solo la batteria.

    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).