E se tornassimo alla lira?
E se tornassimo alla lira? Un bel modo di pensare l'impensabile, una vera provocazione intellettuale. Eppure… George Soros, l'uomo che la lira l'ha combattuta davvero e sconfitta nel settembre 1992, ha lanciato una nuova sfida. Perché non raccoglierla fino al limite estremo? Gyoergy Schwartz (questo il vero nome con il quale nel 1930 viene iscritto all'anagrafe di Budapest), in un articolo sul Financial Times, si rivolge alla cancelliera Merkel, ponendola di fronte a una semplice verità.
E se tornassimo alla lira? Un bel modo di pensare l'impensabile, una vera provocazione intellettuale. Eppure… George Soros, l'uomo che la lira l'ha combattuta davvero e sconfitta nel settembre 1992, ha lanciato una nuova sfida. Perché non raccoglierla fino al limite estremo? Gyoergy Schwartz (questo il vero nome con il quale nel 1930 viene iscritto all'anagrafe di Budapest), in un articolo sul Financial Times, si rivolge alla cancelliera Merkel, ponendola di fronte a una semplice verità: l'euro è in crisi, meglio prenderne atto e “ritirarsi”, prima che sia troppo tardi. In realtà, tra il Reno e l'Oder ci stanno pensando in molti: secondo i sondaggi, almeno la metà dei cittadini vuole un ritorno al marco, ben più granitico dell'euro. Un vero orgasmo deflazionista.
La moneta forte gioca ovunque contro l'industria esportatrice, tranne che in Germania. Nonostante gli alti salari (2.400 euro medi mensili rispetto ai 1.500 italiani) la manifattura tedesca vince perché solida, affidabile, produttiva. L'intero Modell Deutschland è una macchina da guerra, difficile, se non impossibile da imitare. Questo divario mette in crisi la valuta europea e fa nascere la nostalgia per il vecchio conio nazionale. Il ritorno della paura sui mercati (per tutta la settimana le borse hanno fatto i capricci), le cattive notizie sulla congiuntura americana debole dopo una primavera brillante, il timore di un double dip, una ricaduta del ciclo economico poiché anche la Cina mostra il fiatone, la certezza che tutto ciò metterà alle corde i paesi deboli, genera nei forti l'idea che sia meglio volare da soli, liberandosi della zavorra.
In dieci anni, il fossato è diventato sempre più largo e profondo.
La Banca d'Italia ha elaborato una tabella illuminante. Mostra le bilance dei pagamenti dei paesi che compongono Eurolandia e la posizione netta sull'estero, tra il 1999 e il 2009. La prima è la differenza tra entrate e uscite per merci e servizi importati o esportati, in rapporto al prodotto lordo, la seconda indica lo squilibrio tra la consistenza delle attività e delle passività finanziarie di un paese detenute dentro o fuori i confini. Ebbene, la bilancia della Germania è passata da meno 1,3 punti a più 5. Quella della Spagna da -2,9 a -5,4. La Grecia da -5,5 a -11,3. Il Portogallo da -8,5 a -9,3. La posizione netta mostra che la Germania aveva un attivo di 4,5 salito addirittura a 37,2; la Spagna un passivo di 32,1 arrivato a 93,6; mentre il Portogallo tocca 111,7 e la Grecia 83,1. L'Italia si trova nella pattuglia di mezzo, non lontana dalla Francia (deficit estero al 3,2 e passivo netto del 19,2). Le due variabili sono collegate perché con una bilancia attiva e un basso debito pubblico, aumentano anche le attività estere. Non è questione di speculazione, dunque, ma di squilibri fondamentali. Capitale e lavoro si concentrano nei punti alti, è la legge del mercato.
“Altro che debiti sovrani – scrive Paul Krugman ribaltando un luogo comune –la crisi si chiama euro”. Tutte le scuole degli economisti americani da Harvard a Berkeley passando per Chicago, luminari come Milton Friedman o Martin Feldstein, hanno sempre considerato un controsenso “la moneta senza sovrano”. Per non parlare degli inglesi, sia conservatori sia laburisti, guidati questi ultimi da Lord Skidelsky, biografo di John Maynard Keynes. Mentre Giorgio La Malfa tira fuori dagli scaffali il libro scritto dieci anni fa (“L'Europa legata: i rischi dell'euro”, Rizzoli, 2000) e la fondazione Ugo La Malfa tiene cenacoli diretti da Paolo Savona, anche Lucio Caracciolo rilancia il suo euroscetticismo d'antan (“Euro no, non morire per Maastricht” ha scritto in un pamphlet che sfidava “l'euro sì” di Enrico Letta). Giuseppe De Rita ricorda quando lui e Antonio Fazio, allora governatore della Banca d'Italia, si recavano da Carlo Azeglio Ciampi al ministero del Tesoro per esprimere i loro dubbi. Non è più Giulio Tremonti, dunque, a mettere le mani avanti, come avveniva un tempo.
Gli allarmi si fanno trasversali e transnazionali. Nouriel Roubini, Dr. Apocalisse, uno che quando scrive è meglio toccar ferro, pontifica: “Niente pasticci in salsa greca. E' arrivato il momento di ammettere che Atene non ha solo bisogno di denaro liquido, ma è insolvente”. Ignazio Visco, vicedirettore della Banca d'Italia, spiega in un'intervista a Limes: “Ci sono due visioni. La prima è che uno stato fa tecnicamente default sul suo debito pubblico, esce dall'euro, torna alla sua moneta, svaluta e attuando un piano rigoroso, con il sostegno del Fmi, rientra in carreggiata. Per la seconda visione, questo sarebbe un fallimento del sistema”. C'è una terza via e “richiede un piano sistemico”, ma molti dubitano che funzioni. Così Luigi Zingales, italiano di Chicago, scrive che “due euro è meglio di uno”. E pensatoi strategici come Stratfor simulano già una doppia secessione.
Scenario numero uno: di fronte a un default della Grecia, la Germania decide di rilanciare il marco, proprio come propone Soros. Operazione ad alto rischio, che scatena la tempesta sui mercati. Ma dopo un periodo di turbolenza, i capitali correranno di nuovo là dove la moneta è forte. Sul piano politico, l'Unione europea è scossa, ma regge. Non si può fare a meno di Berlino. Scenario numero due: torna la dracma. “Il problema pratico – scrivono gli autori Marko Papic, Robert Reinfrank e Peter Zeihan – è che nessuno vorrà questa nuova moneta, accettata a fatica persino all'interno della Grecia”. Il doppio regime raddoppia gli svantaggi e mette in fuga i capitali. Il governo deve chiudere le frontiere e ricorrere alla forza per impedire di usare valute diverse da quella nazionale. Si presenta un periodo di sconvolgimenti sociali e politici rispetto ai quali gli scioperi e le manifestazioni odierne sono nulla. A meno di un golpe con la proclamazione dello stato d'emergenza e la sospensione delle libertà politiche. In Grecia è già successo nel 1967.
Con la bistrattata dracma, George Papandreou, economista provetto e politico incerto, potrebbe svalutare del 25 per cento per compensare il disavanzo con l'estero e il deficit pubblico rispetto al prodotto lordo. Non sarebbe costretto a vendere i porti (unica vera ricchezza nazionale) ai cinesi. L'austerità imposta dalla crisi, dalla Bce, dal Fmi e da Frau Merkel, fa perdere dieci punti di pil, la famiglia greca torna agli anni Novanta.
E se a riemergere dal passato fosse invece la lira? L'Italia è un grande paese e una potenza industriale, i greci non esportano quasi nulla, gli italiani sono al secondo posto in Europa e tra i primi al mondo. Dunque, non pagano con carta straccia. Perché non riprendere quella libertà di movimento della quale ci si è privati? Tra tutte le grandi promesse, si è realizzata solo la bassa inflazione e nemmeno tanto, visto che il passaggio all'euro ha provocato uno spostamento in alto dei prezzi relativi e dei guadagni per alcune categorie sociali (commercianti, palazzinari, proprietari di beni immobili, chi vive di reddito aggiustabile e chi può eludere o evadere le tasse) a scapito di altre (operai, impiegati, industriali che esportano).
Un gruppo di studiosi della Banca d'Italia ha lavorato sui diversi effetti del changeover a partire dal primo gennaio 2002: la differenza tra inflazione effettiva e inflazione percepita, gli arrotondamenti e gli andamenti anomali dei prezzi al consumo, l'uso dei bancomat e delle carte di credito, il comportamento dei ristoranti. I risultati, pubblicati in un libro (“L'euro e l'inflazione” a cura di Paolo Del Giovane, Francesco Lippi e Roberto Sabbatini, il Mulino) ridimensionano le furibonde polemiche del primo anno, assolvendo in parte l'Istat messo alla gogna per aver usato indici in contrasto con il senso comune. Ma i ricercatori ammettono che “la concentrazione dei rincari in settori o canali distributivi caratterizzati da un minor grado di concorrenza, indica che il passaggio a una nuova moneta può accrescere temporaneamente il potere di mercato delle imprese che operano nei segmenti meno concorrenziali, favorendo aumenti dei prezzi”. Altro che segmenti, sono fette molto consistenti di economia interna, soprattutto i servizi, compresi quelli pubblici, in un paese che ha uno dei più bassi gradi di concorrenza, come mostrano gli indici che ogni anno pubblica e diffonde l'Istituto Bruno Leoni.
Allora, ridateci la lira? Intanto, c'è un problema tecnico. Monete e banconote sono fuori corso dal 28 febbraio 2002, quelle che restano possono essere cambiate presso la Banca d'Italia ancora per due anni, ma hanno ormai solo un valore numismatico. L'ex governatore Antonio Fazio, nel suo studio romano, ne tiene alcuni esemplari, incorniciati alle pareti. Sono state distrutte le matrici. Bisogna, dunque, disegnare e produrre un'altra moneta come fecero i francesi quando Charles de Gaulle nel 1958 introdusse il nuovo franco togliendo due zeri. Non è impossibile, ma occorre mettersi subito al lavoro. La Zecca può produrre 1,3 miliardi di pezzi l'anno e distruggerne 2,6 miliardi. In circolazione c'erano 3,5 miliardi di banconote in lire sostituite da 2,4 miliardi in euro.
Per un certo periodo, sarebbe necessario mantenere una doppia circolazione, con l'effetto di aumentare la confusione. E le imprese esportatrici potrebbero richiedere di continuare a detenere euro per i pagamenti esteri. A quale cambio? Non ha senso uscire se non per svalutare e aumentare così la competitività. E' evidente che gli speculatori si scatenano, ma fino a un certo punto: al di là del mito, agiscono per il proprio utile non sono gli untori della peste; scommettono su una determinata perdita di valore, non sull'annientamento della moneta. Nel caso italiano possono bastare dieci punti in meno per compensare deficit estero e disavanzo pubblico. Dopo un periodo di convulsione, diventerebbe quello l'equilibrio macroeconomico. L'export, però, non ne trarrebbe alcun vantaggio consistente.
Scendendo, invece, del 25 per cento il balzo delle esportazioni diventa immediato. A quel punto, alte grida si leveranno dalle pianure d'Europa. Come accadde nel 1994, quando Jacques Chirac arrivò ad annullare un vertice franco-italiano per protestare contro la svalutazione che aveva messo in ginocchio l'intera industria tessile transalpina. Poi Parigi si spese per farci entrare insieme al franco.
Per la verità, è tutta colpa di José María Aznar il quale nel 1998, con quel tipico orgoglio velleitario degli ispanici, decise che Madrid doveva stare subito insieme ai primi della classe, lasciando con le pive nel sacco Romano Prodi il quale tentava di creare un fronte mediterraneo per trovare altri due anni di tempo. Rimase fuori solo la Grecia che proprio non ce la faceva. Gli italiani pagarono una tassa supplementare mentre Fazio alla Banca centrale teneva ferma la barra della moneta e Ciampi al Tesoro vendeva le aziende pubbliche ai privati per ridurre il debito.
La quotazione fu frutto di un complesso gioco tra mercato e politica. E suscitò molte polemiche. Silvio Berlusconi nel 2006 disse che un cambio a 1.500 lire sarebbe stato più adeguato invece di 1.936,27. Anche considerando il valore di riferimento originario, cioè il peso ponderato della lira nel paniere delle dodici monete che formavano l'Ecu, unità di conto europea. In realtà, quando nel 1996 l'Italia venne riammessa nel sistema monetario, si decise che un marco valeva 990 lire, grosso modo ai valori di mercato. Un ecu 1.944,67 lire e 1,97581 marchi. La moneta, insomma, si era rafforzata rispetto al 1992. Potevamo fare di meglio, ma per tenere quota 1.500 bisognava cambiare un marco a 750 lire, mettendoci di nuovo fuori dallo Sme, con una rivalutazione del 16 per cento destinata a stroncare i nostri imprenditori tessili e meccanici i quali, al contrario, volevano un cambio superiore a quota duemila.
Tornare alla lira, oggi, provocherebbe uno scontro di interessi economici e sociali fortissimi anche in Italia. Da una parte l'industria esportatrice, importante, ma che rappresenta circa un quinto del prodotto lordo. Dall'altra i redditieri, i risparmiatori, i proprietari di case (sono, questi ultimi, l'80 per cento della popolazione). La ricchezza patrimoniale è stata protetta dall'euro, è cresciuta (un immobile al centro di Roma o Milano vale almeno il doppio) e oggi rappresenta nove volte il reddito, uno dei livelli più elevati nel mondo occidentale. Quanto a salari e stipendi, vengono colpiti subito dall'inflazione che il deterioramento della valuta porta con sé. Va aggiunta la stangata energetica, perché gas e petrolio si pagano in dollari. Il Tesoro dovrebbe emettere titoli con rendimenti maggiori e costringere le banche a riempirsi di Bot invenduti.
Due economisti ai quali si deve la più completa storia della lira, Michele Fratianni che lavora all'Università dell'Indiana e Franco Spinelli che insegna all'Università di Brescia, smentiscono ogni nostalgia facilona: “Tra il 1893, anno di nascita della Banca d'Italia e il 1993, l'Italia ha avuto una inflazione media annua di poco inferiore al 9 per cento; nello stesso tempo, la Francia ha avuto il 7,5, l'Inghilterra il 4,5, gli Usa il 3 e la Svizzera il 2. In un secolo, il primato negativo dell'Italia sul fronte dell'inflazione aveva comportato anche un continuo arretramento della lira sul mercato dei cambi. Infatti, il franco francese era passato da una lira a 25 lire, il franco svizzero da una lira a mille lire, la sterlina da 25 a 2.250 e il dollaro da 5 a 1.400”. Insomma, non c'è molto da rimpiangere.
Racconta Carlo M. Cipolla che “la lira nasce nel periodo carolingio come pura unità ideale di conto. Siccome da una libbra di argento la gente otteneva alla zecca 240 denari (unica moneta legale stabilita dalla riforma carolingia), invece di dire 240 denari preferiva dire una libbra (lira, livre, pound o sterling livre)”. Divenne l'unità di misura di quasi tutto l'occidente cristiano escludendo l'oriente bizantino e il sud musulmano. Con una lira si comprava una schiava, con mezza lira due campicelli con una fetta di bosco. Ma già agli albori dell'anno Mille comincia a decadere, la storia della moneta è il racconto di un deprezzamento continuo e dei tentativi di impedirlo.
Scartata l'impossibile resurrezione dell'antico conio, restiamo nell'euro, ma come? Valéry Giscard d'Estaing, uno dei padri dello Sme, aveva proposto un cambio alla pari con il dollaro. Una sorta di delirio di onnipotenza l'ha fatto arrivare a 1,50. La svalutazione di questi mesi ha baciato tutti i big del made in Italy: Bulgari, Luxottica, Tod's, Geox, Armani, e chiunque esporti in America o in Asia.
Se si va verso un euro A e un euro B, noi staremo nel primo, per tutti i motivi che abbiamo detto, quelli internazionali e quelli interni. Allora, invece di inutili scorciatoie, dobbiamo affrontare il nocciolo della questione che non è monetario, né finanziario, ma reale. Scrivono Fratianni e Spinelli: “Per un paese come l'Italia che ha una propensione storica per una inflazione relativamente alta, un regime di cambi fissi comporta una progressiva perdita di competitività. La situazione rimane gestibile solo se la politica fiscale consente di compensare le imprese per la perdita di competitività, se il paese non ha un grosso debito estero e se i mercati monetari e finanziari internazionali sono tranquilli”. Tre condizioni nient'affatto garantite. Non resta, dunque, che rimboccarsi le maniche, risanare la finanza pubblica e ridurre le imposte, aumentare la produttività, liberalizzare i servizi, rendere flessibile il lavoro, espandere l'occupazione a donne e giovani, ridisegnare lo stato sociale con nuove forme di welfare privato, riformare le pensioni. La ricetta c'è, occorre un grande chef.
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