Governo ok, ma la morte per fame dei profughi è anche affar nostro

Maurizio Crippa

L'Africa è una delle “priorità più grandi” della Cooperazione italiana, ha confermato ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini: stava presentando l'ultima avventura di “Overland”, 50 mila chilometri tele-solidali attraverso il continente nero. Sempre ieri, il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha spiegato in un convegno che, dopo la chiusura delle rotte dalla Libia, “Malpensa è diventata la prima frontiera per l'immigrazione clandestina”.

    L'Africa è una delle “priorità più grandi” della Cooperazione italiana, ha confermato ieri il ministro degli Esteri, Franco Frattini: stava presentando l'ultima avventura di “Overland”, 50 mila chilometri tele-solidali attraverso il continente nero. Sempre ieri, il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha spiegato in un convegno che, dopo la chiusura delle rotte dalla Libia, “Malpensa è diventata la prima frontiera per l'immigrazione clandestina”. Facendosi largo a gomitate contro “l'altro bavaglio” dell'autocensura, come l'ha definito l'Unità, ieri si è imposta ai giornali e al mondo politico la tragica vicenda dei duecento e più profughi eritrei che rischiano di morire di stenti e torture nel campo di Brak, nel sud della Libia, dove sono stati deportati dalle autorità libiche pur avendo i requisiti per ottenere lo status di profughi, e che hanno fatto giungere in Europa una disperata richiesta d'aiuto. Alcuni di quei richiedenti asilo erano probabilmente stati respinti dall'Italia nei mesi scorsi, nonostante la Libia non abbia firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Di questo, ieri, Frattini e Maroni non hanno parlato. Anche se la Farnesina ha attivato, in contatto e sollecitata dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) i propri canali operativi.

    Sulla faccenda fioccano ora appelli e interpellanze,
    come quella annunciata dal senatore pd Roberto Di Giovan Paolo, della commissione Affari europei, secondo cui gli “accordi di collaborazione evidentemente non funzionano”. Anche Amnesty International ha chiesto alla Libia di non rimpatriare i profughi eritrei. Questo giornale non stravede per l'umanitarismo nella sua versione più facile, soprattutto quello che lascia passare nel disinteresse generale notizie come l'entrata a far parte della Libia, qualche mese fa, del Consiglio dei diritti umani dell'Onu. Abbiamo elogiato il governo italiano, cercando di usare più raziocinio dell'emozione, quando Maroni ha firmato nel febbraio 2009 il protocollo d'attuazione di un Accordo di collaborazione fra Italia e Libia che era stato raggiunto, nel dicembre 2007, da un governo di centrosinistra, ministro era Giuliano Amato, per fronteggiare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Abbiamo riconosciuto il buon funzionamento di quell'accordo quando, nel maggio 2009, Maroni ha annunciato con l'orgoglio dei pragmatici il primo respingimento.

    Abbiamo parlato, allora, di un governo di buon senso
    e non succubo al politicamente corretto, che provava per la prima volta a spezzare la catena del traffico degli schiavi. Non ci indigna il “Trattato d'amicizia” con la Libia, né l'amicizia personale tra due leader scenograficamente eccessivi come Muhammar Gheddafi e Silvio Berlusconi, ancora nelle scorse settimane ospite a sorpresa del rais di Tripoli. Abbiamo assistito solo con un filo di stupore alla satrapesca visita di Gheddafi dello scorso anno, con tende e amazzoni. E del resto alla presentazione di un libro andreottiano sul “viaggio del leader” in Italia, qualche settimana fa a Roma s'era radunato un parterre de roi e bipartisan, in prima fila proprio Frattini, Lamberto Dini e Massimo D'Alema, banchieri come Alessandro Profumo e imprenditori come Salvatore Ligresti fino a giornalisti come Valentino Parlato. A testimoniare di quanto sia complesso e strategico il rapporto con la Libia. Ma ieri l'unica voce del governo è stata quella di Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen e inviato speciale per le emergenze umanitarie del ministro Frattini, il cui nome sembra essere indicato dall'Italia per l'incarico di Rappresentante speciale dell'Ue per il Corno d'Africa, quando ha affermato che il governo “sta facendo tutto il necessario” per risolvere la vicenda “prima di tutto umana dei cittadini eritrei in territorio libico”. E bene ha fatto Boniver a precisare che certe polemiche sul mancato attivismo dell'Italia in questo frangente drammatico sono “infondate e soprattutto antistoriche e controproducenti, perché non rispettano la sovranità della Libia”.

    Tuttavia. Tuttavia gli accordi bilaterali e il diritto internazionale impongono al nostro governo di distinguere, nei respingimenti, tra immigrazione clandestina e profughi che hanno necessità e diritto all'asilo. E ancor più, esiste una responsabilità, politica prima ancora che morale, che impone di richiedere a un partner con cui si è stipulato un solenne “trattato di amicizia” comportamenti virtuosi e non delittuosi, e il rispetto dei diritti umani. Si possono non condividere le critiche di chi ritiene l'Italia “moralmente responsabile” per via dei respingimenti. E si può anche non essere dei fan dell'Unhcr, soprattutto quando la portavoce Laura Boldrini denunciava i respingimenti.

    Tuttavia, quando la sede dell'Unhcr in Libia è stata chiusa, qualche settimana fa, dal ministro Frattini si è sentito solo un invito alla Libia a essere “flessibile nell'attuazione della chiusura”, ma che la legge libica andava “rispettata ovunque”. E ora che la sede dell'Unhcr sta riaprendo, non pare che il merito sia della voce tonante dell'Italia. Ma il senso della responsabilità politica che l'Italia ha nel suo “rapporto mediterraneo” con la Libia è chiaro, allora la sua voce il ministro degli Esteri deve farla sentire, quando è necessario. E ugualmente il ministro dell'Interno non può ritenere circoscritto il suo pur egregio lavoro all'azzeramento degli sbarchi, è suo compito anche vigilare che gli impegni, come quelli per combattere la tragedia dell'immigrazione clandestina, siano rispettati da un partner. E inoltre il diritto di asilo è sacro, non va messo tra parentesi.

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"