Tanta Robben
Il fuoriclasse dell'Olanda non è Sneijder, ma un ragazzo di cristallo che vincerà il Pallone d'oro
"Io non salto quando arriva il tackle, mica sono un frocetto” disse tempo fa Arjen Robben, 26 anni, ala destra del Bayern Monaco, il principale talento dell'Olanda che oggi si gioca la semifinale del Mondiale contro l'Uruguay. Senza capire che se invece ogni tanto si scansasse, se fosse meno follia e più logica, giocherebbe con maggiore continuità e vincerebbe a occhi chiusi il Pallone d'oro. Quando gioca, Robben, dimostra quanto vale. Fino al solito infortunio.
"Io non salto quando arriva il tackle, mica sono un frocetto” disse tempo fa Arjen Robben, 26 anni, ala destra del Bayern Monaco, il principale talento dell'Olanda che oggi si gioca la semifinale del Mondiale contro l'Uruguay. Senza capire che se invece ogni tanto si scansasse, se fosse meno follia e più logica, giocherebbe con maggiore continuità e vincerebbe a occhi chiusi il Pallone d'oro. Quando gioca, Robben, dimostra quanto vale. Fino al solito infortunio. Fino all'ennesimo stop. Quest'anno, le poche volte che ha giocato, ha fatto tanto. Ha portato, da solo, il Bayern Monaco in finale di Champions League: all'Artemio Franchi spazza via la doppietta di Jovetic e la Fiorentina con un siluro dai trenta metri, palla all'incrocio dietro un incredulo Frey.
A Manchester spiega ad Alex Ferguson, palla al piede, perché nel 2004 sbagliò a non comprarlo – la trattiva era in corso, ma quando Ferguson offrì soltanto sette milioni di euro per averlo, Harry van Raaij, presidente del Psv, rispose: “L'offerta va bene soltanto per avere la maglietta di Robben autografata”. Il Manchester United vola sul 3-0 in una quarantina di minuti. La fine sembra prossima. Olic regala i primi dubbi ai tifosi inglesi. Poi un calcio d'angolo: Ribery mette la palla morbida al limite dell'area e Robben di sinistro al volo indovina una traiettoria impossibile nell'unico spazio disponibile tra il palo e la mano di Van Der Sar. Poi a Madrid vincono l'Inter e Wesley Benjamin Sneijder. Ma tra i due non c'è partita. Sneijder resta un uomo d'ordine, un Lothar Matthäus, un numero otto destinato a fine carriera ad arretrare di metro in metro, fino a giocare dietro la difesa.
Robben un fenomeno, più che un Garrincha un Abatino, per citare Gianni Brera. Beninteso: Robben ha poco da condividere con Gianni Rivera – ruoli e intelligenze diverse – ma non la fragilità fisica. Ai Mondiali Robben ha giocato fino a oggi due partite. Gli ottavi di finale con la Slovacchia e i quarti con il Brasile. Prima era infortunato. Un gol, un'espulsione procurata, uomini saltati come birilli, dalla linea del centrocampo alla linea d'area avversaria un giocatore imprendibile. C'è chi dice che i suoi gol sono tutti uguali (finta a rientrare e bolide nel sette). E chi dice che non passa mai la palla (nessuno ricorda un cross che sia uno di Robben). Tutte cose in parte condivisibili, seppure non dicano nulla dell'essenza di Robben. Del quibus che lo differenzia da tutto e tutti. Robben è un talento di cristallo. E per questo, per i troppi infortuni, non convince la stampa. Eppure talento resta. Certo, non si fa a tempo a innamorarsene che non lo si vede più, relegato per mesi in tribuna col menisco andato, l'adduttore stirato, la caviglia spezzata. E questo continuo andirivieni, alla lunga, può demoralizzare.
Ma Robben è fatto così. Prendere o lasciare. Non ha mai lavorato per portare il suo fisico a essere ciò che non è. Anche ai tempi di Groningen, quando da ragazzino tirava i primi calci, s'infortunava spesso. “Il ciclista di Groningen” lo chiamavano allora. Il motivo del soprannome era semplice: andava agli allenamenti in biciclietta, dodici chilometri all'andata, altrettanti al ritorno. “Però tutto in pianura” spiegò lui un giorno. Come a dire: andavo in bici ma il fisico non lo forzavo. E fa niente se, tempo dopo, Florentino Perez, presidente del Real Madrid, decide di venderlo perché “non è né carne né pesce”. Perez, come tanti altri, non è riuscito a capirlo. Si è fermato ai soliti infortuni. Infastidito, come poco dopo il presidente del Chelsea Roman Abramovich, dai ripetuti pit stop. In un paese, l'Olanda, dove tutti crescono col “metodo Coerver” – la bibbia scritta dall'ex teorico del calcio totale che considera il saper giocare a pallone non come un dono del cielo ma soltanto una questione di allenamento, di automatismo nell'applicazione delle tecniche individuali dentro il gioco di squadra – Robben è l'eccezione che conferma la regola. Cioè: se avesse seguito fino in fondo Coerver avrebbe costruito un fisico adatto a non infortunarsi.
Ma siccome non l'ha fatto conferma l'attendibilità del metodo che non ha voluto seguire. Perché dietro agli schemi di Coerver non sarebbe stato più lui. Il talento di cristallo. Un giocatore che Arrigo Sacchi farebbe giocare sempre. Mica come José Mourinho che Robben lo ebbe al Chelsea. Tra i due non ci fu amore. Disse Robben lo scorso maggio prima di Inter-Bayern: “Van Gaal – allenatore del Bayern, ndr – vuole giocare un bel calcio, offensivo, per vincere. Mourinho, al contrario, non pensa a giocare bene ma a vincere”. E, infatti, all'Inter Mourinho ha portato Sneijder, un Matthäus, non un Abatino.


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