Lettera agli amici rimasti bambini (dopo Germania-Argentina)
Sì, d'accordo, niente eguaglia in purezza e bellezza la faccia triste e le lacrime di chi, non solo nel calcio, è umiliato, stracciato, escluso. Se poi sia in ballo il mito del terzo mondo contro la geometrica e barbarica potenza dei tedeschi, giovani, bene allenati, disciplinati e assistiti da una cancelliera plaudente e abbondante, abbondante e plaudente, il fascino triviale della derrota argentina raddoppia, triplica, si moltiplica per cento.
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Sì, d'accordo, niente eguaglia in purezza e bellezza la faccia triste e le lacrime di chi, non solo nel calcio, è umiliato, stracciato, escluso. Se poi sia in ballo il mito del terzo mondo contro la geometrica e barbarica potenza dei tedeschi, giovani, bene allenati, disciplinati e assistiti da una cancelliera plaudente e abbondante, abbondante e plaudente, il fascino triviale della derrota argentina raddoppia, triplica, si moltiplica per cento. Perfino a Maradona si può infine perdonare, dopo tanta sciamannata e travolgente guasconaggine, questo chavista e castrista dei nostri stivali, il sarto non proprio napoletano che deve avergli confezionato quell'abitino grigio col cavallo alto e le maniche, come si dice a Roma, “a paro li coglioni”.
Però a me che sono indegno figlio degli anni Sessanta in parte benemeriti, uno square incinichito dalla vita e dai soldi, quel trionfo del rigore, dell'allenamento severo, del gioco di squadra, dell'antifantasismo goleador, quella capacità di integrare il turco e il nero in una compagine di bianchi tremendi, formidabili, è piaciuto parecchio, non posso farci niente. E mi ha dato l'impressione di un passaggio esiziale fatale epocale per i miei amici nonni Lanfranco Pace (“Sarà Brasile-Argentina”, si era spencolato il nostro sublime cronista) e Andrea Marcenaro (“Ti prego, Giuliano, facciamo una pagina per Maradona e contro quel fighetto di Platini, ne ho già parlato con Lanfranco”, mi aveva detto al telefono con tono inequivocabilmente barneyano).
E se ci decidessimo a crescere?, ho sussurrato al quarto gol fra me e me, assordato dagli strepiti dei miei compagni di partita che erano, a Capri, dei napoletani spiritosi e in pena per il loro beniamino. Evenienza improbabile, perché italiani cresciuti nella seconda metà del secolo scorso, mentre ancora crepitava la pioggia nel pineto e lungo l'Affrico, hanno poche probabilità di conciliarsi con le tempeste d'acciaio della barbarie civilizzata. Mi piace però provocare le mie grandi firme, e amate, e indurle a pentirsi e a convertirsi a un ideale di maturità, di ordinarietà, di ascetismo del lavoro calcistico, di forza atletica e di collettivismo solidale che ha dato la palma ai crucchi contro il solipsismo eroico, lo spirito fantasista e bacione, la pedata genialoide di quella squadra magnifica e mentecatta di eterni bambini che è sempre stata l'Argentina. Dovesse costarci la sottomissione a un coach che si mette le dita nel naso, e poi se le passa con gusto sulle labbra, ne sarà forse valsa la pena, dopotutto.
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