Massimo Fini ci spiega perché lo sciopero non s'aveva da fare

Claudio Cerasa

Ieri mattina ci siamo incuriositi parecchio quando, sfogliando tra le pagine dei giornali che annunciavano la propria sentita partecipazione al “silenzio rumoroso contro la legge bavaglio”, abbiamo trovato un pezzo che ci ha stuzzicato. Siamo a pagina ventidue del Fatto quotidiano e Massimo Fini, districandosi con agilità in mezzo a una sfilza di articoli polemici contro quei quotidiani “allineati con la voce del padrone” che quest'oggi troverete in edicola, ha scritto un bell'articolo pieno di spunti interessanti.

Leggi Silloge sullo sciopero dei giornalisti contro il “bavaglio”

    Ieri mattina ci siamo incuriositi parecchio quando, sfogliando tra le pagine dei giornali che annunciavano la propria sentita partecipazione al “silenzio rumoroso contro la legge bavaglio”, abbiamo trovato un pezzo che ci ha stuzzicato. Siamo a pagina ventidue del Fatto quotidiano e Massimo Fini, districandosi con agilità in mezzo a una sfilza di articoli polemici contro quei quotidiani “allineati con la voce del padrone” che quest'oggi troverete in edicola, ha scritto un bell'articolo pieno di spunti interessanti. Titolo del pezzo: “Uno sciopero pretestuoso”. Tesi di Fini: la mobilitazione promossa ieri dalla Federazione della stampa italiana è stata semplicemente un errore. Proprio così.

    “Sono contrario – scrive Fini – allo sciopero dei giornalisti indetto dalla Fnsi contro la legge sulle intercettazioni, anche se, naturalmente, mi adeguerò alle decisioni del nostro sindacato. Sono contrario però per ragioni diverse da quelle sostenute da Marco Travaglio su questo giornale, e cioè che volendo lottare per la libertà di stampa noi, con lo sciopero, finiamo per imbavagliarci. Non si tratta di questo”. E di che cosa si tratta allora? Nel suo articolo Fini fa un ragionamento lineare. Attorno alla legge sulle intercettazioni si intrecciano tre interessi diversi e contrapposti che meritano di essere ricordati. Primo: l'intessere della collettività a reprimere, attraverso l'azione della magistratura, i reati e a punire i rei. Secondo: l'interesse del singolo cittadino, coinvolto a qualsiasi titolo in un'inchiesta penale, a vedere rispettata la propria riservatezza e la propria onorabilità. Terzo: l'interesse della collettività a conoscere anche attraverso i media fatti penalmente rilevanti. “Nella fase delicata e per sua natura incerta delle indagini preliminari – scrive Fini – possono essere coinvolte persone che risulteranno estranee ai fatti sotto inchiesta e raccolti elementi ininfluenti ai fini del giudizio. In questa fase l'interesse individuale al rispetto della propria onorabilità prevale su quello collettivo alla conoscenza”.

    Perbacco, caro Fini, ma abbiamo capito bene? Cioè: questo sciopero proprio non s'aveva da fare? “Mettiamola così”, ci spiega Fini, “io credo che lo sciopero si diriga necessariamente contro la parte giusta della legge. Ovvero quella che cerca di evitare che le persone che non c'entrano nulla con le indagini vengano massacrate dal circuito mediatico giudiziario. La magistratura deve essere libera di fare il proprio lavoro, e qualsiasi tentativo di ridurne la libertà deve essere fustigato, ma da vecchio cronista giudiziario come sono io non posso non notare che lo sciopero dei miei colleghi è, per usare una metafora, un pochino ambiguo. I giornalisti si accorgono solo adesso delle bruttezze del processo penale italiano perché in questo momento c'è in ballo una legge che li colpirebbe davvero, e non per finta come successo oggi. E' ovvio che qui da noi c'è un problema che in paesi come per esempio l'Inghilterra non esiste (lì le indagini preliminari non durano molto, e ti credo poi che a nessuno salta in mente di pubblicare tutte le intercettazioni che mettiamo in pagina noi).

    Ma sono comunque convinto che i miei colleghi, e l'ho scritto anche sul Fatto, sarebbero stati più credibili se fossero scesi in campo per combattere contro l'indecente durata dei processi, e non per protestare contro una parte di legge che pone una questione importante e condivisibile: il diritto a non essere sputtanati”. A questo punto, senza pudore, chiediamo a Fini se sia disposto a firmare il nostro appello in difesa della privacy che oggi ritrovate in prima pagina sul Foglio. Fini tergiversa e allora gliela mettiamo in maniera diversa. Gli leggiamo l'articolino (per rileggerlo, andate sul Foglio.it) con il quale ieri abbiamo spiegato le ragioni per cui oggi, come direbbe Travaglio, noi instancabili crumiri allineati con la voce del padrone siamo in edicola. E a sorpresa Fini ci dice che quell'articolo, in fondo, anche se in astratto, lo condivide eccome. “E non stupitevi: almeno per quanto mi riguarda, ho sempre sostenuto che se c'è un modo per evitare che i fatti privati non diventino oggetto di trastullamento collettivo quel modo bisogna sostenerlo”.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.