La fortezza di Gerusalemme

Giulio Meotti

Alla tomba della matriarca biblica Rachele si arriva superando una guardiola di militari israeliani che vigilano sulle poche automobili che si avventurano verso questo magnete blindato dell'identità religiosa d'Israele. La tomba, che da fuori sembra più un fortino sotto assedio, è oggi uno dei luoghi più protetti di tutto Israele. C'è silenzio e quiete, ma una visita qui dà la sensazione di che cosa lo stato ebraico debba fare per proteggersi nel caso di una nuova Intifada nei Territori.

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    Alla tomba della matriarca biblica Rachele si arriva superando una guardiola di militari israeliani che vigilano sulle poche automobili che si avventurano verso questo magnete blindato dell'identità religiosa d'Israele. La tomba, che da fuori sembra più un fortino sotto assedio, è oggi uno dei luoghi più protetti di tutto Israele. C'è silenzio e quiete, ma una visita qui dà la sensazione di che cosa lo stato ebraico debba fare per proteggersi nel caso di una nuova Intifada nei Territori. Non lontano da qui c'è il campo profughi di Deheishe, dove c'è una “Via Baghdad”, in onore di Saddam Hussein.

    Rahel Immenu, “Rachele nostra madre”, dorme da 3.800 anni in quella stanzetta bianca, coperta da un panno. La tomba, destinata a Israele dagli accordi di Oslo, è incapsulata in un sarcofago militarizzato, dove sono impressi i versetti tratti dal Libro della Genesi. L'esercito ha costruito una serpentina di torrette, filo spinato e altissime barriere. Il piazzale è sovrastato da un palazzo bianco sullo sfondo, da cui i cecchini palestinesi hanno aperto il fuoco su pellegrini e soldati. La tomba non è più la piccola cupola romantica che apparve ai visitatori nel passato. Per ricordare com'era, gli israeliani hanno dovuto dipingere l'antica immagine in un murales di fronte al bunker.

    Terzo luogo santo del giudaismo,
    dopo il Muro occidentale a Gerusalemme e le tombe dei patriarchi a Hebron, “Kever Rachel”, come la chiamano in ebraico, sorge ad appena trecento metri dai confini di Gerusalemme. Ma siamo in un punto in cui durante la Seconda Intifada si veniva presi a sassate e a colpi di kalashnikov. L'esercito israeliano chiuse la zona ai pellegrini ebrei. Oggi arrivano gli ultraortodossi con la palandrana nera e i nazionalisti con la kippah colorata a uncinetto.
    Arriviamo alla tomba accompagnati da Yoav Alon, un dirigente storico del partito Likud a Gerusalemme. Ingegnere con un fratello ucciso in guerra, “palestinese” da sei generazioni, cioè una delle primissime famiglie ebraiche immigrate in Israele nell'Ottocento, Yoav è l'uomo che per conto del ministero della Difesa sta costruendo pezzi della barriera difensiva che ha fermato i kamikaze palestinesi. Suo è il compound di Rachele. “Proteggiamo la popolazione civile”, dice Alon. E' fiero di aver reso sicura Gerusalemme.

    Alon ha costruito anche la cosa più alta che ci sia a Gerusalemme: il pennone d'acciaio visibile da qualunque punto della città, opera del famoso architetto Calatrava. Simile a un'arpa, lo strumento di re Davide. “C'erano degli amici dal Brasile che non potevano avere figli”, racconta Yoav. “Erano in visita in Israele, dissi loro di venire da Rachele per chiedere una benedizione. Acconsentirono, anche se dicevano di non crederci. Al loro ritorno a casa la moglie era incinta”. Una delle tante storie di miracoli della fertilità che circondano questo luogo triste e bellissimo. Rachele è una specie di Madonna ebraica, la protettrice della maternità santificata. Rachele, moglie di Giacobbe, dette alla luce due dei dodici figli del patriarca, Giuseppe e Beniamino, i più cari al loro padre e alla storia del popolo ebraico. Ma Rachele, nel dare alla luce Beniamino, morì. La stanza originale è piccola e si dice che in questo biancore avvengano miracoli di fertilità. Le madri delle spose senza figli avvolgono la tomba in lunghi fili bianchi girandole più volte attorno.
    [Anche la tomba del figlio di Rachele, Giuseppe, è in una delle più fondamentaliste delle città palestinesi, nel cuore di Nablus. Per andarci si prende un pulmino con i vetri antiproiettili. I pellegrini ripetono che “l'anima dei profeti rimane nei luoghi dove sono sepolti”. Nel 1996 sei soldati israeliani furono uccisi nella tomba. E nel 2000 i palestinesi la distrussero. Fu ridipinta di verde, il colore dell'islam. Ci si va di notte, dopo che l'esercito ha reso “sicuro” il posto. Le donne hanno in braccio i bambini, fataliste ed eroiche].

    L'immagine della piccola cupola ebraica di Rachele è impressa in monete, libri, banconote, talismani. C'è persino chi ha raccolto la terra attorno alla tomba per usarla, un giorno, nella propria. Si dice che quella terra santa propizi la salvezza dell'anima. Il premier Netanyahu ha appena incluso la tomba di Rachele fra i patrimoni israeliani, scatenando le ire islamiche. A pochi metri da qui sorge il cimitero islamico di Betlemme, dove riposa Ahmad Bek Abdel Aziz, un famoso comandante egiziano ucciso nel 1948. Israele quest'anno dovrebbe terminare la barriera difensiva. Dai quartieri di Gerusalemme ovest Alon ci mostra dove l'esercito sta tirando su un altro pezzo di muro. Nella vallata le ruspe lavorano senza sosta. “I terroristi possono ancora partire da Hebron, saltare l'attuale barriera e penetrare in Israele da qui”, dice Alon. Saliamo al messianico cimitero ebraico che da secoli si estende sull'altura dove i morti guardano il Monte del Tempio aspettando con pazienza l'arrivo del Salvatore. Si intravede in lontananza il muro che a tratti taglia a metà i villaggi di Abu Dis e Betania. Uno strumento triste ma necessario: da qui sono passati diciannove terroristi sucidi. “Questa chiesa ha chiesto di essere inclusa nel tracciato israeliano del muro”, dice Alon. Perché i cristiani stanno molto meglio sotto Israele che sotto l'Anp.
    Altissimo e solitario, con una grandissima bandiera israeliana, sorge l'edificio acquistato dal magnate americano Irwin Moskowitz. Amico e già finanziatore del premier israeliano Netanyahu, il ginecologo milionario Moskowitz dalle sue ville in Florida, California e New York smuove da anni i fili della politica mediorientale.

    “Il dottore” ha comprato un edificio in pietra a Gerusalemme,
    dove ha dato ospitalità al centro nazionalista Beit Orot. Poi ha venduto una casa di cura per anziani per comperare lo Sheperd Hotel, fuori dalla Città Vecchia, affittandolo alla polizia di frontiera israeliana durante l'Intifada. E' “fiero” d'averlo sottratto al precedente inquilino: il Mufti di Gerusalemme alleato di Hitler durante la guerra. Con Alon attraversiamo Sheikh Jarrah, il quartiere al centro delle polemiche a Gerusalemme est, dove nazionalisti ebrei sono andati a vivere in mezzo agli arabi. E' la Napoli (ottocentesca) di Gerusalemme, abitazioni basse, muri scrostati, cumuli di immondizie e detriti, alberi secchi in un quartiere povero che ospita alcune antichissime tombe giudaiche. In pochi minuti da lì si arriva al Monte degli Ulivi. La tomba di Simeone il Giusto, un antico saggio del Talmud, è un magnete per i nazionalisti israeliani, ma anche per i pii ultraortodossi che qui vengono notte e giorno a salmodiare a loro rischio. Le donne hanno i capelli raccolti sotto i foulard, le gonne alla caviglia sopra i jeans per preservare il pudore, gli uomini hanno la barba lunga e un libro di preghiere in tasca. Vicino alla Via Dolorosa, quella del Giudizio e della Flagellazione, nel quartiere arabo della città santa, sorge folle un'altra scuola talmudica. Anch'essa protetta dall'esercito. Il piccolo conglomerato ebraico di Beit Yonatan sorge in mezzo agli arabi di Silwan. E' una vita di trincea. Sopra le case di Sheikh Jarrah sono state costruite gigantesche menorah di legno, i candelabri ebraici.

    Poco più in là riprende il tracciato della barriera.
    Il mondo, per bocca della Corte di giustizia dell'Aia, ha giudicato “illegale” la barriera che ha fermato i kamikaze dell'Intifada. Gli israeliani sembrano determinati ma sofferenti. Inoltre il muro è amovibile, i morti giacciono per sempre. “La gente all'estero non sa quanto bene abbia fatto la barriera, anche ai palestinesi”, dice un'ex militante della sinistra che chiede di restare anonima. Da quando è stata eretta a ridosso della Cisgiordania le bombe umane si sono fermate. Chi ha in carico la sicurezza ci spiega che “non si sente parlare di attacchi perché i terroristi non riescono a superare il muro. Ogni giorno si presentano ai checkpoint con coltelli, pistole, pietre, bombe”. Il pezzo più impressionante è nel cuore d'Israele. Tra la Linea verde e la costa ci sono quindici chilometri. Vicino c'è Netanya, mezz'ora di cammino veloce, dove un terrorista si fece esplodere nella Pasqua ebraica massacrando trenta sopravvissuti all'Olocausto. Poco distante c'è Tel Aviv, colpita più volte. A nord Afula e Hadera, insanguinate anche loro.
    Lungo l'autostrada l'esercito ha eretto un terrapieno dove campeggiano le aiuole e della barriera si vede soltanto la punta, con le telecamere. Qalqilya, città di confine come la verde e fiorita Tulkarem, è circondata dal muro. Prima che gli israeliani lo erigessero, i cecchini sparavano sulle auto. Ora c'è quiete.

    All'altezza di Megiddo, la città dell'età del bronzo, dominata dal Monte Tabor, dove avvenne la trasfigurazione di Gesù, e teatro, secondo l'Apocalisse, della battaglia dell'Armageddon tra il Bene e il Male, un memoriale ricorda un devastante attentato compiuto nel 2005, quando ancora non c'era il muro. Erano le 7 e 15 del mattino e il pullman numero 830, in servizio tra Tel Aviv e Tiberiade, si avvicina all'incrocio di Megiddo. Il kamikaze è alla guida di una Renault carica di tritolo e si scaglia contro il mezzo. Il bus brucia per un'ora. Riesce a liquefare tutto ciò che si trova all'interno. Il mezzo salta in aria di fronte al più grande carcere militare israeliano, dove sono rinchiusi centinaia di militanti palestinesi. Sono loro a esultare di fronte alle giovani vite di israeliani bruciati vivi. Le guardie della prigione assistono impotenti alla strage. Un inferno di fuoco. Due cadaveri carbonizzati, un uomo e una donna, furono rinvenuti abbracciati fra le lamiere. A bordo c'erano soldati che rientravano alle basi. Su una lapide oggi si possono leggere i loro nomi. Come David Stanislavsky, l'immigrato dall'Ucraina che aveva acquistato un biglietto aereo per andare dalla fidanzata. O come Sivan Viner: il fratello l'aveva accompagnata all'autobus, dopo mezz'ora le telefona per sapere se va tutto bene; Sivan salta in aria poco dopo. Dall'altra parte della valle i dorsi delle colline della Galilea risalgono verso il confine con il Libano. C'è chi ha scritto “Welcome to Hell”, benvenuti all'inferno. E' Jenin, “la capitale dei kamikaze”. Da qui sono usciti trenta attentatori islamici.

    Impressionante è la barriera che protegge gli automobilisti israeliani sull'autostrada 443, che i pacifisti chiamano “apartheid road”, perché entra dentro ai Territori collegando Gerusalemme e Tel Aviv passando per Mod'in, una città nuova considerata un grande successo da Israele. Netanyahu, come gesto di distensione verso l'Anp, ha da poco riaperto la 443 ai palestinesi, dopo che era stata chiusa per l'uccisione di una dozzina di ebrei da parte dei cecchini dell'Intifada. Chi guida qui lo fa ancora a proprio rischio. Il Bagaz, l'Alta Corte israeliana, ha legiferato che la 443 venga riaperta per motivi di eguaglianza di fronte alla legge a tutti i veicoli anche se il prezzo può essere la vita di famiglie solo ebree.

    A Gerusalemme si fortifica ormai anche sottoterra. Per avere un'idea dell'assedio del paese bisogna scendere nel famoso tunnel che corre lungo il Muro del pianto, il luogo più santo per l'ebraismo, costeggiando l'antico Tempio di Salomone su cui si ergono anche i luoghi di culto islamici di Al Aksa. Il tunnel venne aperto nel 1996 da Netanyahu e ci furono decine di morti durante una mini Intifada. Nessuno voleva che venisse svelato il segreto di quelle pietre ciclopiche che gli Asmonei più di duemila anni fa posero lungo il magnifico acquedotto che dava da bere alla città. Al tunnel si arriva da una porticina vicino alle toilette che i religiosi usano per lavarsi prima della preghiera. Questi tunnel sono uno dei luoghi più protetti di tutto Israele. Il mondo islamico ne ha fatto una delle leggende nere: dice che Israele con i tunnel voglia far crollare la moschea di al Aksa che sorge sopra il Muro del pianto. Ce n'è abbastanza per incendiare di nuovo il medio oriente.
    L'apertura da parte delle autorità israeliane di una seconda uscita del tunnel che scorre lungo un tratto del perimetro esterno del Monte del Tempio ha dato vita a un'ondata di violenze palestinesi che hanno provocato la morte di ottanta persone. I commercianti arabi della zona oggi non protestano contro il tunnel, perché porta una gran cultura archeologica e un grande vantaggio economico; ma soprattutto conviene al quartiere arabo stesso, dove il passaggio sbocca. Nel 1990 l'allora premier di destra Yitzhak Shamir aveva preferito rinunciare al tunnel. Anche Yitzhak Rabin, che sapeva del tunnel, non volle aprirlo. Il canale fu ritrovato per caso nel 1981 dal rabbino del Muro del pianto, il cabbalista Yehuda Meir Ghetz, che ogni giorno era solito entrare nelle viscere della terra nella convinzione di trovarsi nel punto fisicamente più vicino al sancta sanctorum del Tempio di Salomone. Due anni fa l'ex first lady Laura Bush andò là sotto a pregare.

    Gli uomini dello Shabbak, il servizio segreto interno, vigilano sempre sulla nostra visita. Donne religiose sono in costante preghiera presso un pezzo del muro. Gli archeologi non sanno ancora decifrare l'origine di queste pietre gigantesche lunghe dieci metri. Chi le ha portate qui? E come? Le sale delle magnifiche cisterne sono ornate di volte antichissime, commoventi. Il tunnel è una costruzione spartana, bassissima e stretta. Solo una persona alla volta riesce a camminarci. Fa freddissimo là sotto. Bandiere israeliane e luci gialle cercano di rendere il luogo meno angusto. In un angolo staziona un gruppo di religiosi raccolti nello studio della Torah. Gli archeologi hanno trovato una fonte d'acqua, che i religiosi usano come bagno rituale. L'uscita del corridoio bimillenario forse porta alla guerra. In un angolo le donne baciano commosse le grandi lastre, il loro volto è nascosto in un libretto dei Salmi. Un israeliano esclama, sconfortato: “Qui sotto sarà la fine d'Israele”.

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.