Contro il mito del multietnico vincente per forza nel calcio
L'avrete vista la regina Sofia rallegrarsi negli spogliatoi della Spagna con i suoi giocatori e loro ad applaudirla con semplicità, non mi pare che il regale sguardo abbia posto nemmeno per un attimo il problema della diversità: eppure c'è più differenza tra un castigliano e un catalano di quanta ce ne possa essere tra un tedesco puro sangue e quegli altri di fattezze e origini turche, kabile o nigeriane.
L'avrete vista la regina Sofia rallegrarsi negli spogliatoi della Spagna con i suoi giocatori e loro ad applaudirla con semplicità, non mi pare che il regale sguardo abbia posto nemmeno per un attimo il problema della diversità: eppure c'è più differenza tra un castigliano e un catalano di quanta ce ne possa essere tra un tedesco puro sangue e quegli altri di fattezze e origini turche, kabile o nigeriane. Per questo non riesco proprio a capire l'enfasi con cui da giorni si parla dell'estrema modernità, del carattere profondamente innovante di un progetto di Nazionale multietnica. Mi sembra più che altro un'invasione di campo in puro stile Rep., più nociva di quella del cassanofilo di professione cui il mondo ha potuto assistere in diretta. Il rigurgito ideologico quando è veicolato con sapienza e mestiere e venduto con appeal, come ogni qual volta che si estrinsecano lo zucconismo nel senso di Vittorio, il lernerismo nel senso di Gad e il maurismo, questo nel doppio senso di Ezio e di Massimo, ex calciatore, ex deputato “de sinistra” e commentatore a tempo pieno di Sky, di solito tracima e fa danni incalcolabili: per esempio potrebbe spostarci, come si dice, dal target, che per noi italici non può che essere il sogno di vincere il Mondiale 2014 o quanto meno di presentarci piedi in pugno a una finale, che già fa salivare, con il Brasile padrone di casa. Tutto il resto è fuffa.
Da quando mi sono innamorato del calcio, cioè da più di cinquanta anni, non ho mai visto discriminazioni, esclusioni di campioni in base al colore della pelle. E nemmeno il suo contrario, ovvero l'inclusione forzosa di brocchi ad opera di intellettuali convinti che la rappresentanza della diversità sia chic e molto in.
Manuel Francisco Dos Santos aveva la spina dorsale deformata, una gamba di sei centimetri più corta dell'altra, ma nessuno gli disse che era non solo uno sgorbio ma anche un indio dell'Amazzonia e che avrebbe fatto bene a tornare in foresta. Manuel Francisco Dos Santos divenne l'“alegria do povo”, la gioia del popolo, vinse da solo il Mondiale del 1962 e con il nome di Garrincha, uccello saltellante, entrò nella graduatoria della Fifa come sesto calciatore più forte di sempre. Così come nessuno disse a de Oliveira Nunes che era bianco e che aveva una pelata più sguarnita di quella di Mario Corso che era allora tutto dire: se lo tennero quel Gérson, è stato il più grande centrocampista della storia. Ci sono e ci saranno Nazionali fieramente figlie del sangue e della stirpe, il Giappone, le Coree, almeno in questo sorelle.
Forse la Cina, forse le Nazionali degli emirati arabi e dei paesi del Maghreb. Persino nelle Nazionali africane dietro l'apparente uniformità si scopre la coabitazione fra etnie diverse che a volte addirittura si odiano, di odio profondo e antico. Nella bianca Argentina, si colgono al primo sguardo le differenze tra discendenti di italiani, di tedeschi e spagnoli, tra i mondi di Heinze e di Carlitos Tevez. Nei paesi anglosassoni, scandinavi, la multietnicità è la norma. La Germania prima di esplodere oggi in multicolor, aveva immesso da tempo in squadra calciatori di origine polacca. La scuola olandese non sarebbe stata quella che è stata senza i figli del Suriname e delle Antille: oggi che comanda il clan bianco dei De Boer, il capitano è sempre uno che viene dalle Molucche. La Francia è quella che in materia ha fatto di più. Ma è proprio la Francia che si è incaricata di smentire se stessa, di dirci quanto quel mito fosse falso: il suo naufragio in Sudafrica a causa di conflitti e rivalità interne dimostra che la composizione etnica in sé e per sé non è garanzia di nulla, né di bel gioco né di risultati. Che solo contano la personalità, la classe e lo spirito di gruppo.
Per questo le trombe del multietnico steccano e inquinano. Ci riportano a un passato poco glorioso quando vestivamo d'azzurro argentini di casa, quando andavamo a caccia di certificati anagrafici di chiunque fosse oriundo, parola tornata sinistramente d'attualità. Se la voglia di multietnico significa questo, meglio imporre il diritto del sangue. Se invece per multietnico si intende Mario Balotelli, è vergognoso prenderlo come testa di turco per fare i bozzi a Bossi. Significa offenderlo, non volerlo vedere per quello che è: un ragazzo dal talento pazzesco, un ragazzo italiano.
Il Foglio sportivo - in corpore sano