Perché non possiamo comunque essere come la Spagna
Finito il Mondiale, ecco il programma minimo: Italia campione nel 2014
Dopo il giusto, inevitabile trionfo dell'olio d'oliva sul burro, chiudiamo questo tormentone, tornando a noi. All'Italia alle vongole, due pareggi e una sconfitta. Dico subito che mi sono sentito sollevato per l'esito infausto. Uscire bene, a testa alta come vuole l'untuoso cliché delle tante anime belle che si aggirano per l'universo mondo, non è cosa mia. Trentunesimi o giù di lì sedicesimi o ottavi non avrebbe fatto alcuna differenza, sempre sconfitti saremmo stati.
Dopo il giusto, inevitabile trionfo dell'olio d'oliva sul burro, chiudiamo questo tormentone, tornando a noi. All'Italia alle vongole, due pareggi e una sconfitta. Dico subito che mi sono sentito sollevato per l'esito infausto. Uscire bene, a testa alta come vuole l'untuoso cliché delle tante anime belle che si aggirano per l'universo mondo, non è cosa mia. Trentunesimi o giù di lì sedicesimi o ottavi non avrebbe fatto alcuna differenza, sempre sconfitti saremmo stati: lo diceva l'Avvocato ben prima di José Mourinho, che il secondo è solo il primo degli ultimi, figurarsi gli altri. Se si doveva perdere dunque tanto valeva perdere bene cioè nel più indecente dei modi. Il problema è capire come, quando e fin dove. Come, non è affar mio né nostro. Il quando e fin dove, sì: e diciamo con improntitudine che dobbiamo risalire subito, gridando alto e forte che dobbiamo vincere nel 2014, o quanto meno disputare una sontuosa finale con il Brasile padrone di casa.
Gli Europei sono troppo a ridosso e storicamente non fanno per noi: se, come la Spagna, avessimo dovuto farci le ossa sul continente prima di vincere un titolo mondiale, staremmo ancora ad aspettare il 1982 e il 2006, visto che di Europei ne abbiamo vinto uno, striminzito e con ripetizione della finale, quarantadue anni fa. Andare in Sud America a riprendersi la coppa è il programma, come si diceva una volta, “minimo”. Altri sogni non conosciamo che possano essere all'altezza del paese che ha vinto quattro Mondiali, secondo solo al Brasile, che pensa le spettino per diritto divino le chiavi del regno del pallone e che è sicuro di avere la scienza infusa nel gioco dei piedi. Nelle nostre vene scorre sangue pazzo, siamo capaci di passare con voluttà da un estremo all'altro, sempre bevendo il calice fino alla posa, i soli in grado di perdere contro due Coree e una Slovacchia ma di vincere contro Brasile, Argentina e quella prepotente Germania.
Per questo dobbiamo eterna gratitudine a coloro che la mazzolarono, ai mattacchioni del 1982 come all'allegra banda del 2006: quando si ha la pessima abitudine di bastonare il cane che affoga e magari pure di torcergli il tartufo, è bene portare nel cuore e nel ricordo i Bearzot e i Lippi, i Tardelli e i Rossi, i Conti, i Cannavaro, i Pirlo e i Grosso. Ci vollero trentadue anni e poi altri venticinque per vincere i due titoli del Dopoguerra: teniamoceli stretti questi eroi eponimi, simpatici o antipatici, malgrado le disfatte di quattro anni dopo.
Ora al timone c'è Prandelli, gran signore, discreto ex calciatore, bravo tecnico. Di lui pensavo che fosse glamour ma che non avesse né il modo di fare né lo stile del condottiero vincente. Da ieri, da quando ho visto che si può vincere anche alla Del Bosque, con le rotondità di Peppone e borbottando, devo ricredermi. Il problema dunque non è il mister, è tutto il resto. Che fare? Quale modello per la nuova Italia? Noi non siamo né saremo mai la Germania e in confidenza neanche vogliamo esserlo. Non siano però nemmeno la Spagna e lei non possiamo esserlo, anche volendo.
Non perché non abbiamo giovani che quelli sono come i cretini, sono ovunque, ma perché non abbiamo giovani talenti, veri e non millantati, che siano abituati a giocare insieme e a trovarsi senza cercarsi. Non c'è un equivalente di un Barcellona e del suo vivaio, l'unico club italiano con una politica simile è l'Atalanta. Delle milanesi, una è una multinazionale che di italiano ha solo la ragione sociale più Santon e Balotelli, l'altra arranca, la Juventus è un'incognita, la Roma una certezza ma troppo atipica per fare da modello alla Nazionale. Passare per i club, sperando che cambino il loro modo di intendere il calcio, è improponibile e richiederebbe comunque troppo tempo. Per l'aria neodemocristiana che tira, non ci resta che pregare e, da tifosi, dire “Germania o Spagna, purché se magna”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano