Il rito ambrosiano aveva battuto la via della “associazione sovversiva”, poi ha ripiegato su un altro monstrum
L'assurda condanna del gen. Ganzer, colpevole di aver servito lo stato lavorando nell'ombra
Il Tribunale di Milano, accogliendo la fantascientifica tesi della procura ha emesso ieri una sentenza che di fatto attesta che il Ros, il più efficiente reparto investigativo italiano, la punta di diamante dell'intero corpo dei carabinieri, ha visto ai suoi vertici dal 1993 e infine sarebbe stato comandato dal 2002 da una sorta di narcotrafficante che si è reso colpevole di tali malefatte da meritare 14 anni di prigione.
Il Tribunale di Milano, accogliendo la fantascientifica tesi della procura ha emesso ieri una sentenza che di fatto attesta che il Ros, il più efficiente reparto investigativo italiano, la punta di diamante dell'intero corpo dei carabinieri, ha visto ai suoi vertici dal 1993 e infine sarebbe stato comandato dal 2002 da una sorta di narcotrafficante che si è reso colpevole di tali malefatte da meritare 14 anni di prigione. Questo narcotrafficante – si noti bene – è un generale dei carabinieri, Giampaolo Ganzer ed è tra i più brillanti e capaci ufficiali della storia recente dell'Arma tanto che da una dozzina d'anni, tutti i governi del centrosinistra e del centrodestra durante i quali Ganzer è stato prima vicecomandante e poi comandante del Ros, non hanno minimamente dato peso a queste accuse e a questo processo, confermando la piena, totale fiducia in lui e nel suo operato. Ma tutto questo è stato ininfluente – anzi – per la procura e per il Tribunale di Milano, perfetta testimonianza del ruolo destabilizzante per le stesse istituzioni repubblicane che possono avere certe articolazioni del “rito ambrosiano”. Rito che ieri si è arricchito di una nuova liturgia devastante.
Ganzer e i suoi coimputati sono stati infatti perseguiti dalla procura sulla base di un impianto accusatorio che definiva – fantasiosamente e irrealisticamente – una loro partecipazione a una associazione sovversiva. La sentenza di ieri, invece – a quanto si è compreso da un avvocato di Ganzer – manda assolti gli imputati dalla accusa associativa, ma poi “cesella” tra i vari reati (riciclaggio, peculato, falso ideologico, ecc…), li somma e passa dai 27 anni richiesti dal pm a 14. Con un'aggiunta in più che riguarda Ganzer: nessuno di questi reati per cui oggi è condannato ha mai potuto essere materialmente compiuto da lui, per il semplice fatto che quando sono stati commessi lui comandava tutt'altro reparto e neanche conosceva, né aveva il minimo rapporto gerarchico o di lavoro con nessuno dei suoi attuali coimputati (per questa ragione la procura si era inventata la “associazione” ex post). Cambiano i fattori ma il risultato non cambia e dobbiamo constatare che l'abuso italiano della pratica della contestazione del reato associativo crea con questa sentenza un altro monstrum (vieni processato per associazione, poi ti condannano per peculato che non puoi avere commesso, perché non c'eri ed è provato per tabulas che non c'eri). Un effetto però è certo: questa sentenza reca un colpo terribile ai Ros, quindi alla stessa gestione della sicurezza in Italia, perché dimostra che uno dei migliori generali dei carabinieri, Ganzer, può essere letteralmente “distrutto” (sospensione a vita da incarichi di stato, immediata sospensione dal servizio) da una vicenda processuale surreale dopo aver servito straordinariamente il paese per trent'anni. Messaggio chiaro, inequivocabile, dalle devastanti conseguenze operative e politiche che chiude un processo volutamente costruito sulla certezza che “non poteva non sapere, anche se è accertato ed è agli atti che non ha mai avuto la possibilità di sapere”.
Nel corso del dibattimento, la procura di Milano non ha prodotto infatti in aula nulla che dimostrasse le stravaganti tesi dell'accusa circa l'esistenza di una “associazione criminale” che sarebbe stata capeggiata da Ganzer, né della sua corresponsabilità nei reati specifici ora contestati dalla sentenza (tutti commessi prima che lui assumesse il reparto antidroga). Questo è il punto: tutti questi reati sono stati commessi prima che Ganzer avesse un qualsiasi ruolo nelle vicende contestate. Questo è risultato palese nel dibattimento tanto che la difesa dell'avvocato Tiburzio de Zuani ha ritirato tutti i suoi testi a discarico (tranne Pier Luigi Vigna, per evidenti ragioni di prestigio e di perfetta conoscenza proprio del merito delle accuse) perché tutti i testi dell'accusa (tranne Armando Spataro) avevano di fatto discolpato Ganzer. Ciò nonostante, il pm Luisa Zanetti, questo ha detto in aula, in sede di requisitoria poche settimane fa: “All'interno del Ros, Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, c'era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito una associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida”. Si badi bene la sostanza dell'accusa di questa ineffabile pm che sostiene per anni un procedimento che ha il fine di dimostrare che un generale dei carabinieri, più alcuni ufficiali e sottufficiali hanno trasformato la più autorevole struttura investigativa italiana (nella totale disattenzione dei superiori, così come dei ministri dei vari governi) in una vera e propria banda di narcotrafficanti, ma non per denaro, non per ricatto, non per fini eversivi. No, solo per fare una carriera rapida, o quantomeno “per avere più visibilità”. In un paese normale, un magistrato normale, o perlomeno i suoi superiori normali della procura, a fronte di questa ipotesi accusatoria, prima ancora di verificare indizi e prove, avrebbero controllato la carriera dell'inquisito. Sarebbe bastato questo – come vedremo – per smontare di ogni motivazione il presupposto reato: la carriera del generale Ganzer sino al periodo contestato era già stata eccezionale e non si vede perché avrebbe dovuto accelerarla, visto che da trent'anni era stata tra le più rapide e piene di successo di tutta l'Arma. La “visibilità” conseguente era stata proporzionale e massima. Ma la procura di Milano, come si sa, non è un normale ufficio giudiziario, è da anni luogo di elaborazione del diritto ed ecco allora che la sua esponente “di punta” Luisa Zanetti questo contesta al generale Ganzer, al capitano Mauro Obinu e al pm di Bergamo Mario Conte: “Essi promuovevano, costituivano un gruppo dedito alla commissione di una serie indeterminata di illecite importazioni e cessioni di ingenti quantità di eroina, cocaina e hashish, utilizzando la struttura, i mezzi e l'organizzazione dell'Arma dei carabinieri, abusando della propria qualità di pubblici ufficiali”.
Non solo, Ganzer e Obinu sono stati accusati dalla pm Zanetti anche di avere importato in Italia a bordo della motonave Bisanzio, salpata da Beirut e approdata a Ravenna il 9 dicembre 1993, 119 kalashnikov, 2 lanciamissili, 4 missili e munizioni, destinati alla malavita organizzata e venduti in cambio di soldi che non si sa che fine abbiano fatto. In parte sarebbero stati usati per acquistare droga da utilizzare per giocare a fare i finti trafficanti in modo da incastrare quelli veri e in parte potrebbero essere stati oggetto di spartizione tra una parte degli imputati. Il dramma è che il Tribunale, a fronte della palese inconsistenza dell'impianto accusatorio, invece di mandare assolto Ganzer – come doveva – gli ha attribuito complicità nei reati compiuti dai suoi coimputati, che lui neanche conosceva quando questi reati sono stati commessi.
La storia vera, non le “deduzioni logiche” dell'accusa, è di una semplicità abissale e in un paese in cui la magistratura inquirente facesse solo la magistratura inquirente e non fosse un centro di potere del tutto “irresponsabile”, sia sotto il profilo istituzionale che del buon senso, sarebbe stata chiusa in un attimo.
E' una storia vecchia, che inizia nel 1997 quando uno spacciatore arrestato, tale Biagio Rotondo, poi suicidatosi in carcere, dichiarò al pm di Brescia Fabio Salamone di avere lavorato come “fonte coperta” del pm Conte e del maresciallo Lovato, nella operazione denominata “Hope”, avendo messo in contatto il Lovato con un fornitore sudamericano e avendo poi trovato, in un secondo tempo, gli acquirenti della partita di droga in Italia. In un secondo momento si sono inseriti nella operazione Hope i marescialli Laureano Palmisano e Costanzo Leone, sotto il comando, del capitano Fischione, tutti del Ros. Interrogati da Salamone i due marescialli ammisero i fatti e anche altro: di non avere sequestrato l'ingente somma ricavata dalla vendita di questa prima partita – operazione Hope – per coprire un'altra “fonte” che sarebbe stata “bruciata” da questo sequestro e anche di aver poi trasferito questo denaro in Svizzera, di averlo in parte riciclato attraverso un agente della polizia elvetica (tale Sergio Azzoni) e di averlo riconsegnato ai narco colombiani per effettuare un'altra operazione (denominata “Cobra”). Il tutto, sempre secondo la testimonianza di Palmisano e Leone, sotto il controllo del pm di Bergamo Conte.
Tutto questo – ecco il punto determinante, focale di questa vicenda – in un periodo in cui l'allora colonnello Ganzer nulla aveva a che fare con questi tre disinvolti carabinieri del Ros, perché era assegnato a tutt'altro comando (contrasto al terrorismo, a Roma). Nel merito, peraltro, il pasticcio combinato nel '93 dai marescialli Palmisano e Leone (le indagini patrimoniali non hanno rivelato alcun loro profitto) va probabilmente attribuito a un mix di ragioni in cui un ruolo determinante può avere avuto la loro scarsa dimestichezza con la legislazione del '92 che regolamentava le operazioni “coperte” (in sostanza permettendo di “sospendere” atti dovuti, come il sequestro di droga o denaro illecito, ma sempre comunicandolo alla magistratura e mai finanziando nuove operazioni, come loro avevano fatto), unita a probabili motivazioni di carriera. Il caso vuole però che il magistrato che ascoltò queste confessioni e che si trovò in mano questa ghiotta vicenda che non andava sicuramente a onore di quel reparto del Ros (ma, ripetiamo, in questi fatti Ganzer non era coinvolto perché assegnato ad altro comando), fosse il pm di Brescia Salamone (già salito all'onore delle cronache per avere inquisito Antonio di Pietro).
Il caso di nuovo vuole che il pm Fabio Salamone nello svolgere questa indagine sui Ros possa non avere avuto l'animo sereno, possa essere stato in palese conflitto d'interesse, possa insomma avercela avuta con i Ros che per due volte, nel '93 e nel '97, avevano arrestato suo fratello Filippo, imprenditore di Agrigento, con pesanti accuse di mafia. Il caso volle che tutto questo si sia trasformato in uno dei tanti feuilleton che girano tra certi giornalisti giudiziari, molto, molto apprezzati in certe procure, per cui su alcuni giornali (Repubblica tra questi) iniziò a girare la leggenda metropolitana secondo cui il pentito Angelo Siino avesse ricevuto ben 800 milioni dai Ros per “pagare” le sue dichiarazioni che avrebbero inguaiato anche Filippo Salamone. Naturalmente queste leggende metropolitane lasciavano intuire che il Ros avrebbe ricavato questi 800 milioni dai suoi traffici con i narcotrafficanti, tipo l'operazione Hope, scoperta casualmente da Salamone. Altrettanto naturalmente, dopo avere “mascariato”, queste leggende svanirono nel nulla. Nulla era non solo vero, ma neanche verosimile, ma il ruolo di certi giornalisti giudiziari non ha nulla a che fare né col vero, né col verosimile.
Dunque una brutta storia, quantomeno di abuso di potere da parte di due marescialli del Ros, finita in una sentina di veleni quale è la procura di Brescia verso la fine degli anni Novanta.
Logica vorrebbe che la giustizia si fosse occupata dei reati commessi, o meno, dai due marescialli, della mancata vigilanza – nel caso – da parte del loro comandante di allora e delle eventuali responsabilità del pm Conti che i marescialli tirano in ballo.
Questo sarebbe accaduto in un paese normale, in cui vige l'habeas corpus, in cui l'impalpabile sostanza probatoria dei reati associativi non spingesse sempre più i magistrati dell'accusa a inventarsi percorsi accusatori bizantini che, in spregio ai fatti, al buon senso e alle stesse testimonianze e risultanze processuali finiscono – involontariamente, questo è chiaro – per fare uno straordinario favore alla criminalità organizzata. Per inciso va infatti notato che il fatto che il comandante del Ros sia “sotto schiaffo” da parte della magistratura da una dozzina d'anni, che venga affermato da un pm che merita 27 anni di carcere quale capo di una sorta di banda di narcotrafficanti è infatti un palese attentato alle istituzioni, e che infine di anni se ne prenda comunque 14, è una barzelletta che fa sghignazzare – e fa un sacco di piacere – ai veri capi delle bande di narcotrafficanti.
Ma questi ragionamenti non scuotono il pm Luisa Zanetti, che assieme al pm Daniela Borgonovo ha costruito la tesi accusatoria per la quale Ganzer, giunto al comando del reparto antinarcotici del Ros, quando l'operazione Hope era già conclusa invece di denunciare le irregolarità dei due marescialli e del capitano (che non conosceva, né di lui sospettava) le abbia coperte.
Il tutto, in base alla stravagante tesi accusatoria che vuole che Ganzer, circa un anno dopo i fatti, avendo richiesto e ricevuto una relazione sulla operazione Hope in cui i due marescialli non facevano minimamente cenno alle irregolarità commesse (questo, prima che il pentito Biagio Rotondo ne parlasse a Salamone), avrebbe dovuto comunque sapere di queste irregolarità. Anche se i due marescialli e il capitano hanno testimoniato in aula di avere sempre celato queste irregolarità a Ganzer. Irregolarità – qui si arriva alla pura “fantascienza associativa” – che secondo l'accusa il generale Ganzer avrebbe poi reiterato in altre “operazioni”, infrangendo il codice. Irregolarità, in operazioni antidroga successive, dirette – queste sì, da Ganzer – che non risultano per nulla alla stessa magistratura, tanto che il procuratore Nazionale Antimafia Pier Luigi Vigna le ha negate in aula, anche perché Ganzer si è sempre attenuto alla regola di fare autorizzare tutte le richieste “di ritardare gli atti”, dalle procure di Milano, Bologna, Roma, Firenze, competenti per territorio (non così avevano fatto i due marescialli dell'operazione Hope, che avevano lavorato col procuratore Conti). Punto questo determinante: secondo l'accusa “l'associazione criminale” sarebbe stata fondata dai due marescialli e dal pm Conti, allora a Bergamo, ma Ganzer mai, né prima, né dopo, si è rivolto al pm Conti per nessuna operazione antidroga.
La procura di Milano non è arretrata infatti di fronte alle evidenze processuali che sono tutte, indistintamente, a favore di Ganzer e spesso è caduta nel “peccato dibattimentale” di cospargere gli atti processuali di piccoli “trucchi”, consistenti nel riprodurre frasi di verbali dello stesso Ganzer che provano le accuse solo e unicamente perché sono volutamente “orbate” di premesse o frasi successive che negano l'impianto accusatorio con palmare evidenza. Oppure ha giocato sul confuso interrogatorio dell'ispettore elvetico Azzoni (che aveva cambiato il denaro della operazione Hope e aveva dichiarato a Salamone che l'operazione era stata autorizzata da Ganzer), ignorando la testimonianza del colonnello Lauretti che aveva raccolto uno sfogo dell'ispettore secondo cui la sua verbalizzazione non corrispondeva a quanto dichiarato a Salamone. Azzoni, si badi bene, conoscerà Ganzer solo sei anni dopo l'episodio del '93, mentre il maresciallo Palmisano allora era totalmente sconosciuto a Ganzer; che dunque avrebbe accreditato un carabiniere che non conosceva, presso un ispettore straniero altrettanto sconosciuto. Tanto che il colonnello Lauretti ha testimoniato che Azzoni aveva ipotizzato che fosse stato Ganzer ad aver autorizzato il cambio di denaro, solo perché lo conosceva di fama.
Ma queste discrasie, per l'accusa, sono inezie. Come è un'inezia il fatto – determinante – che Pier Luigi Vigna ha testimoniato in aula che, proprio prendendo in esame i problemi e le dinamiche delle operazioni guidate dai Ros di Ganzer, il legislatore ha aggiornato le norme che permettono infiltrazioni nel narcotraffico con le leggi 49 e 146 del 2006, che aggiornano la legislazione delle “operazioni coperte”. E qui, proprio qui, si arriva alla sostanza più interessante e forse più affascinante di questo caso che sembra avere del pazzesco. Il centro di questa vicenda è come si difende la collettività e si serve lo stato nella “zona d'ombra”.
Senza sconfinare nella letteratura – ma il generale Ganzer e questa sua traversia sono degni della penna di un Joseph Roth o uno Stefan Zweig – il tema è quello, scabrosissimo, della definizione di regole, di norme, che guidino quegli uomini dello stato che rischiano la vita collaborando con i narcotrafficanti, per sconfiggerli. E' evidente, infatti, che per conquistare la fiducia di ceffi come i grandi trafficanti del Cartello di Medellin, o delle cosche alla Messina Denaro, i membri del Ros debbano apparire – ma anche essere – largamente complici. Ma sino a quando, sino a che limite, e come? Il principio del legislatore è semplice: è ammessa solo una “sospensione di atti dovuti”, autorizzata dal magistrato. Ma – sempre sotto controllo del magistrato – “la zona d'ombra”, la complicità apparente con i narcos da parte del Ros, può estendersi addirittura sino alla costruzione di una raffineria perfettamente funzionante. In Italia, infatti, l'etere – elemento chiave per la raffinazione – è più disponibile e quindi i narcos sono portati a raffinarvi la pasta di coca. Il punto dirimente è che quella raffineria (è una delle tante operazioni dirette da Ganzer) era letteralmente piena di “cimici” e che ovviamente, non appena appare chiara tutta la trafila criminale, sino ai suoi vertici (che sono il vero obiettivo), la rete venga tirata in barca e scattino gli arresti.
Punto discriminante, questo è il principio sempre difeso da Ganzer, è che mai i Ros possono essere complici nella vendita della droga (non è un paradosso: possono essere “complici” nel trasporto – questo è il loro punto forte, perché sospendono con facilità i controlli di dogana – e persino nella raffinazione, ma il reato si incarna, si materializza nella vendita e qui scatta il veto che prima di essere legale è etico: “Non si deve, non si può ‘provocare' l'acquirente”. Dunque la procura di Milano, non solo ha perseguitato per una dozzina d'anni un innocente, non solo ha ridicolizzato di fatto il più prestigioso reparto investigativo sostenendo che è comandato da un generale narcotrafficante, ma ha anche ignorato il grande apporto dato dai Ros nella definizione sempre più aderente ai tempi, sempre più evolutiva del giusto e dell'errato, di come gli uomini dello stato si possano comportare nella grande “zona d'ombra”. Peccato tipico questo del “rito ambrosiano” che da Mani pulite in poi ha imposto al paese una versione manichea (e reazionaria, peraltro) del Giusto, della Norma, completamente slegata dal contesto.
Tutta la vita di Giampaolo Ganzer, all'opposto, lo ha fatto partecipare, indagare, curiosare, sentire sulla pelle, il nucleo stesso della “zona d'ombra” della cronaca italiana e dei suoi protagonisti. Sempre da servitore dello stato, forte della grazia di chi è nato in Carnia, ha un padre maresciallo degli Alpini ed è impregnato, con istintiva semplicità, della cultura mitteleuropea del “servizio allo stato”. Col risultato di essere oggi l'unico alto ufficiale dei carabinieri ad avere trenta anni ininterrotti di attività investigativa sul campo alle spalle.
Giampaolo Ganzer è inavvicinabile. O meglio, è avvicinabilissimo, se lo si trova, ma risponde con un cortese diniego, sottolineato da uno sguardo dritto negli occhi a chi gli chieda di parlare di questo processo e – peggio ancora – della sua vita. Chi lo conosce, pochi, tranne i suoi carabinieri, prova una profonda rabbia nel rapportare la sua serenità, il suo sangue freddo, il suo sorriso, le sue capacità universalmente riconosciute, da destra a sinistra (a tutti i livelli, sia del Pdl, che del Pd, della Lega e dell'Udc), con le miserie della vicenda tratteggiata dal pm Zanetti con così tanta incapacità di cogliere il reale. A fronte del diniego di Ganzer di parlare di se stesso, si è costretti a consultare – non è facile – il suo ruolino di Servizio e a parlare con alcuni suoi colleghi (anche i dirigenti della Polizia di stato che lo stimano molto). Si capisce allora che ci sono pochi avvenimenti importanti, intriganti, complicati avvenuti in nord Italia dagli anni Settanta in poi in cui Ganzer non si sia calato, non abbia investigato, scritto su carta i mille pezzi del mosaico, inventato trappole investigative, superato mesi e anni di noiosissimi riscontri che solo alla fine hanno dato risultati.
Il friulano Ganzer decise da giovane che avrebbe fatto il militare e si iscrisse alla Nunziatella, leggeva; gli piaceva moltissimo – anche oggi è il suo hobby – la storia dell'Arte – ma non il Barocco – propende verso il razionalismo – molto Kant, poco Giovan Battista Marino – scelse infine i carabinieri per naturale e istintiva ricerca d'ordine e di regole.
A vent'anni Ganzer divenne sottotenente; a ventidue tenente al comando della compagnia di Laives, inserita nel Battaglione mobile dei Cc che, tra l'altro, fronteggiò la rivolta di Reggio. Nei primi anni Settanta si applicò con passione a comprendere le idee del Collettivo politico metropolitano di Curcio e partecipò alle indagini sulla morte di Giangiacomo Feltrinelli (timer difettoso). Studiò con puntiglio anche il “memoriale di Marco Pisetta”, primo infiltrato nelle Br. Faceva parte, insomma, di una leva di giovani ufficiali dei carabinieri che imparavano sul terreno, spesso da autodidatti, la necessità assoluta di una analisi scientifica dei testi e dei documenti, a partire dalla capacità di dominare e conoscerne i presupposti ideologici e teorici. Nel '72 investigò sulla strage “nera” di Peteano del 31 maggio in cui vennero uccisi a tradimento tre carabinieri e incrociò quello strano esemplare di “pentito non pentito” che era Carlo Cicuttini. Dal '79 si è impegnato a tempo pieno sul fronte dell'antiterrorismo. Partecipò alle indagini che portarono all'unica condanna di Renato Curcio e Alberto Franceschini per un fatto specifico: l'omicidio di due esponenti del Msi uccisi dalle Br nella sede di via Zabarella di Padova. Poi le indagini sull'Autonomia operaia, il Fronte comunista combattente, i Nar, Fioravanti, Mambro, Cavallini. Nell'82 diresse le operazioni che sgominarono la “banda dei giostrai” che aveva messo a segno una quarantina di sequestri; passò a indagare sulla Mala del Brenta e arrestò una prima volta, nel 1984, Felice Maniero (che poi evase). Dopo lunghi anni a Padova e nel nordest, nel '93 venne chiamato a Roma, come comandante del nucleo antieversione, indagò sulla Falange armata e sugli attentati di quell'anno; lavorò anche a stretto contatto con i Servizi algerini sulle ramificazioni italiane (e anche francesi, dopo i terribili attentati di Parigi) del Fis e del Gia algerini, i gruppi fondamentalisti di cui comprese le motivazioni religioso-politiche eversive, rifiutando la semplicistica tesi corrente di un movimento di rivolta contro un regime ingiusto. Da lì una quasi ventennale esperienza nel contrasto al terrorismo jihadista che è uno dei pilastri dei successi nella prevenzione e nell'indagine sui gruppi islamici terroristi degli ultimi anni. Sempre nel '93, infine, il comando del nucleo di contrasto al narcotraffico. Qui, l'inizio di questa surreale vicenda. Che non lo ha mai preoccupato più di tanto.
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