Ministro “no comment”

Come mai il sapiente Tremonti non c'è mai quando la casa brucia?

Salvatore Merlo

Si muove felpato, modi orientali, sapienti, è sempre presente, ma allo stesso tempo, quando conviene, sa essere assente. Abilissimo a non essere mai tirato in ballo o stanato, neanche dai quotidiani, Giulio Tremonti – per qualcuno il futuro leader del centrodestra – è destinato a incarnare l'uomo misterioso della legislatura. Spicca di più quando riesce a rendersi miracolosamente invisibile. Dov'era Tremonti mentre Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi si mandavano a quel paese alla direzione nazionale del Pdl?

    Si muove felpato, modi orientali, sapienti, è sempre presente, ma allo stesso tempo, quando conviene, sa essere assente. Abilissimo a non essere mai tirato in ballo o stanato, neanche dai quotidiani, Giulio Tremonti – per qualcuno il futuro leader del centrodestra – è destinato a incarnare l'uomo misterioso della legislatura. Spicca di più quando riesce a rendersi miracolosamente invisibile. Dov'era Tremonti mentre Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi si mandavano a quel paese alla direzione nazionale del Pdl? Era lì, a via della Conciliazione, ha parlato, è stato “militante”, ma paradossalmente non si è fatto notare, non ha “preso parte”: né prima né dopo. Su di lui si congettura e basta. E dov'è adesso, che cosa pensa in questi giorni di tramestio nel governo (gli hanno appena dimissionato un sottosegretario, e lui zitto), nella maggioranza e nel suo partito? Come si muove? Quando la casa brucia, il superministro non c'è. Non è un pompiere del Pdl in fiamme, ma non è neanche nel novero degli incendiari.

    Si dice che trami contro Gianni Letta, che il Cav. lo voglia mettere alla prova: “Bossi è più amico tuo o amico mio?”.
    Anche nel giorno in cui si approva la manovra, Tremonti riesce a sparire. Ieri, in Senato, la Finanziaria che porta il suo nome e il suo cognome è passata con la vituperata fiducia, ma lui ne è uscito senza spettinarsi: neanche l'opposizione ha strepitato troppo. La capogruppo Pd Finocchiaro si è praticamente scusata con lui per la sua furia antifinanziaria. Tremonti si è fatto volentieri rubare la scena da Fini, dall'affare Cosentino e, a Palazzo Madama, richiesto di concedere “una battuta” ai giornalisti, si è sfilato lasciandosi dietro soltanto una vaga sensazione della propria presenza: “Non rispondo, come non ho risposto ieri. Anche ieri non ho detto nulla, ma poi il Tg3 ha fatto il titolo: ‘No comment di Tremonti'. Mi chiedo dove sia la notizia”. Si narra che il Tremonti politico (non il tecnico, altrimenti detto “il genio”) con Bossi osteggi il lavoro di Letta: la pace con Fini e il ritorno di Casini. Ma chi può dirlo?

    Si tratta di speculazioni dovute più alla centralità di Letta che agli indizi lasciati da Tremonti. Il gran ciambellano del Cav., discretissimo com'è, paragonato a lui è un frontman di scena.
    L'uomo sa dissolversi quando vuole, parla poco (specie se può farsi del male), rilegge e riscrive le proprie interviste – le poche che concede – con millimetrica pignoleria. Così il suo silenzio diventa l'oggetto di mille congetture: lo sforzo di un mondo politico, e giornalistico, che cerca di afferrarne l'essenza per fissarla sulla carta di uno schema cartesiano, di un complotto pervicacemente orchestrato, di un futuribile scenario post berlusconiano. Tremonti è il protagonista ideale di qualsiasi manovra, purché sia molto intelligente, molto segreta e richieda molta accortezza. Lo si deve forse alla sua estetica, al complesso di inferiorità che scatena negli interlocutori, al suo saper fare di conto, alle sue vantate (e vere) amicizie internazionali, alla familiarità con le lingue. In un Parlamento di trottole, c'è uno che va dritto: “Rigore”, “Lega nord”, “banche”; e solo talvolta qualche, cauto, esperimento.

    Che Tremonti sia il personaggio ideale per il romanzo giallo della politica
    lo ha rivelato da ultimo anche Pier Ferdinando Casini, a La7 da Mentana, con innocenza quasi: “Il Pd dice no al governo delle larghe intese solo perché è stata fatta l'ipotesi che a guidarlo possa essere Berlusconi”, ha detto il leader dell'Udc. Per poi aggiungere, ammiccando: “Ma se il nome dovesse essere quello di Giulio Tremonti, i democratici direbbero di sì”. Ieri D'Alema quasi lo ha fatto, intervistato dal Corriere della Sera: “Se si tratta di una operazione di ceto politico intorno a Berlusconi non serve. Ha senso se è un appello alla responsabilità… un governo di transizione o di larghe intese. Se dentro il Pdl ci sono persone preoccupate del destino del paese e non soltanto cortigiani… questa prospettiva è attuabile”. D'Alema ha detto di “sì” al governo delle larghe intese e non ha detto di “no” a Tremonti premier.
    Dove spunta Tremonti si scatena la curiosità e un po' la fantasia. E se c'è un complottino spunta Tremonti. Così è prevedibile che oggi si almanacchi di un patto semisegreto tra il superministro e Bossi, un accordo sul federalismo, due o tre fogli controfirmati da entrambi dove, secondo il giornalista collettivo, sarà Tremonti (più del Cav.) il garante dell'alleanza tra la Lega e il Pdl. Tutto vero, tutto finto, tutto verosimile. Ciò che manca – sempre – è la pistola fumante in mano all'uomo la cui più straordinaria risorsa (o maledizione) è di restare sempre in misterioso equilibrio.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.