Galateo per intercettati

Stefano Di Michele

Il telefono, la loro voce – come da spot vintage di quando chiacchierare nella cornetta ti allungava la vita e non te la sputtanava per sempre. Anche perché, stando chiusi tra quattro mura, pur con la prolunga che ti consentiva il passaggio salone-cesso-salone in assoluta discrezione, si riusciva ancora a tenere sotto controllo la vanità della chiacchiera al telefonino che poi, quando te la ritrovi stampata sul giornale, da gran complottatore che ti sentivi ti riporta alla condizione più consona di discreto coglione.

    Il telefono, la loro voce – come da spot vintage di quando chiacchierare nella cornetta ti allungava la vita e non te la sputtanava per sempre. Anche perché, stando chiusi tra quattro mura, pur con la prolunga che ti consentiva il passaggio salone-cesso-salone in assoluta discrezione, si riusciva ancora a tenere sotto controllo la vanità della chiacchiera al telefonino che poi, quando te la ritrovi stampata sul giornale, da gran complottatore che ti sentivi ti riporta alla condizione più consona di discreto coglione.

    Sono tutti ormai incastrati – e s'intende socialmente, volendo eticamente, di sicuro mediaticamente: per quanto riguarda il penale si vedrà – da una stupefacente vanagloria ciarliera senza inizio e senza fine (a ben pensarci, a rileggere quei surreali dialoghi che sembrano sceneggiature dei Vanzina, altro che Monicelli, altro che Totò, solo un po' troppo esagerate, viene persino il sospetto che neanche loro a un certo punto sappiano più dove stanno, chi devono vedere, a chi hanno promesso cosa): un tripudio di Fofò e Fefè e Pipì, tutto uno scompisciarsi addosso di contentezze e di vanterie – “sto qui nell'anticamera di..!”, “vedo il senatore laggiù! te lo passo, eh?”: sembrano le pischellette quando avvisano le amiche che hanno intravisto un tronista televisivo – un arruffare promesse, un promettere di, un dannarsi per, un garantire che, un molestare continuo, un continuo richiamare, tutta una pena e una scena, “sono con l'amico… coso… te lo passo…” – che quasi uno immagina il mesto finale di giornata, la camicia sudata e maleodorante, i piedi gonfi, seduti sul letto ci si smuove l'alluce dolente da tanto camminare e da tante anticamere (come il “povero diavolo” di un romanzo di Simenon, senza l'onore del povero e l'onere del diavolo) e si comincia a rimestare sui tasti: “Carissimo, scusa l'ora…”, e poi se qualcuno ha richiamato e come mai quello non chiama e perché l'altro non si fa vivo…

    Tutta la dannazione,
    se non fosse troppo eccelsa citazione per una simile situazione, di una non vita immaginata da Kavafis, quella sciupata “nel troppo commercio con la gente / con troppe parole in un via vai frenetico”: un destino agro da campagnoli inurbati in sogno in Costa Smeralda. Se non c'è galateo nell'intercettare, non ce n'è neanche negli intercettati – la cassa de vino, buono er vino che ho mandato, eh!, né tavernello né frascatello, “abbiamo il famoso Bue Arpis che è il migliore d'Italia, non sta neanche in commercio”, signore e signori, persino un riporto si è visto, e che riporto, neanche i barbieri di provincia ne avevano più memoria!, e un riporto a Berlusconi dovrebbe subito apparire problematico e mettere sull'avviso, l'attaccarsi alla segretaria nel tentativo di avvicinare alla cornetta Sua Eccellenza, e la massoneria sempre arronzata come nei film di Alberto Sordi, “voglio la luce!”, e la sbruffoneria parolaia e cazzona, “santità che bello, ungimi! ungimi!” (e pure irrispettosa, essendo notoriamente l'Unto solo Quello), e “ti benedico e ti perdono tutti i peccati che non hai commesso!”, ah! ah! ah!… E sentite quest'altra, allora, sentite: il culattone, eh, il culattone! Il frocio, il frocino, il frocetto – mai però l'inarrivabile “fare il frocio col culo altrui”, quasi perfetta sintesi tra gergo borgataro ed elevata visione filosofica, e risate, roba che se magari gli fai il culo gli fai pure un piacere, e l'Aids che “prendi di sicuro se stringi la mano” a quello lì, da tenersi la panza per le risate, manco nella notte del terremoto veniva così tanto da ridere… Nessun gusto, figurarsi. Nessuna misura, per piacere. Nessun galateo – eppure, nell'Era dell'Intercettazione, anche un geometra di paese, “chillo non ha chiamato ancora, io aggio parlato con chillo”, che i poveri militi dell'Arma a momenti uscivano matti per capirci qualcosa (e fanno le barzellette sui carabinieri!) dovrebbe dotarsene.

    E poi Cesare, ave Cesare!, lupi che non sentono tanto l'odore del sangue quanto quello dell'arrosto già pronto, lupi dei suoi agnelli, a dirla poeticamente, e vagano accaldati e illanguiditi – due piedi come due casse di garofani!, tale e quale la sarta che metteva in scena Franca Valeri – intorno alle mura della città proibita di Palazzo Grazioli – e a tenerli a bada ci vorrebbero ottanta Bonaiuti attrezzati come marine a Baghdad, che poi il desco presidenziale si è sempre sciaguratamente rivelato più facile da raggiungere di una mensa Caritas – e si capisce, pure meno utile. Berlusconi potrebbe fare ancora qualcosa, per arginare quest'armata di vu' cumprà sghangherata e resistente che vorrebbe in massa depositarsi ai suoi piedi – e che per ora hanno l'alluce indolenzito la sera, e il sole inseguito tutto il giorno pare, a bordo letto – ah, un catino d'acqua con un po' di bicarbonato dentro! – un Sole (al solito) Ingannatore, come quello con i baffi e comunista, ma senza i baffi e con la tragedia volta in opera buffa. Potrebbe fare questo, Silvio, lui che al riporto non ha dato tregua e persino a Schifani ha fornito una piega da statista. Magari addirittura ritirare quella legge sulle intercettazioni – che avendo ormai perso il capo (da intendersi, come da democratico allarme, quello della libera stampa da mozzare) ed essendo rimasta a lui solo la coda di paglia dell'iniziativa, non vale il gioco e la candela è ridotta a un mozzicone, senza contare che le cartolerie dalle parti di largo Fochetti non hanno più nemmeno un post-it giallo e nel contiguo giornale non sanno come tirare avanti. Ma questo è il meno. Subito dopo un bel decreto di tre articoli: a) consegna presso il garage di Palazzo Grazioli di tutti i telefonini a disposizione di dirigenti e semidirigenti e dirigenti a cottimo del pidielle; b) ripristino immediato, con impegno tassativo per loro ad utilizzarli, dei vecchi telefoni a gettoni; c) consegna a tutti i dirigenti, da quelli massimo a quelli semi a quelli semplicemente fessi, di venti gettoni a testa, venti e non uno di più, da far durare fino alla primavera prossima ventura, e contemporanea imposizione dell'assoluto silenzio, come in certi conventi di clausura durante la passione di Nostro Signore (e se confondono Signore e Signore meglio ancora: s'intimoriscono di più), a tutta la grottesca e vociante mezzadria circostante.

    Ma tutto questo appare (purtroppo) di difficile attuazione. Non resta che una strada, continuando di sicuro quelli a chiacchierare a sproposito e quegli altri a intercettare (più che a sproposito, si lamenta il Cesare brianzolo): il ritorno di massa a un minimo di galateo – ci fosse la possibilità di un arrivo di massa di gente capace di comprenderlo, un minimo di galateo. Intanto una cosa Berlusconi potrebbe farla, con una spesa inferiore a una sola accensione del vulcano finto in Costa Smeralda – quello che nei giorni belli quando lui l'accendeva i commensali lo credevano Leonardo. Una cosa da niente, ma di grande saggezza, fatta anni fa da un capo democristiano. Manco di sinistra, manco di sfuggita cattocomunista, anzi: Antonio Gava, gran capo doroteo. Quando era presidente dei senatori diccì, e tutti i giorni era botta e risposta, sberleffo e insulto con l'ex amico Cossiga che li ammattiva dal Quirinale, per imporre loro il silenzio acquistò alcune centinaia di copie di un fondamentale libretto scritto nel Settecento da un intelligente ecclesiastico francese, l'abate Dinouart: “L'arte di tacere”, e ne fece personalmente dono (senza aggiunta di cassa di vino) a ogni eletto democristiano. La saggezza di allora: più che “L'Italia che ho in mente”, tenetevi per voi quello che avete in mente. Opera preziosa, che con un po' d'impegno persino i buzziconi delle intercettazioni potrebbero decifrare e trarne beneficio. Per esempio, là dove si spiega che “se si tratta di serbare un segreto non si tace mai troppo. Il silenzio è, in questa circostanza, una delle cose per le quali non si deve temere nessun eccesso…”. O meglio ancora, più avanti: “Il silenzio politico è quello di un uomo prudente, che si contiene, che si comporta con circospezione, che non si apre sempre, che non dice tutto ciò che pensa, che non chiarisce sempre la sua condotta e le sue intenzioni…”.

    Qualche migliaia di copie
    – altro che i soliti pacchi di cravatte, e una decisa svolta cultural-politica: ci aveva provato, Berlusconi, a non far alimentare i suoi seguaci solo con la poetica bondiana, e infatti da decenni si fa forte della passione per “L'elogio della follia” di Erasmo, soltanto che quelli l'hanno presa come autorizzazione a un generale scapocciamento – e quindi chiuder loro la bocca, anziché lasciargli la possibilità di dire quello che pensano, sarebbe tanto di guadagnato. Se poi il Cavaliere vuol risparmiare qualche copia de “L'arte di tacere”, potrebbe benissimo cominciare da quella destinata a Gianni Letta, che l'operetta deve aver mandato a memoria per suo conto, e nel parapiglia di spacconate e brutture lessicali è l'unico a non avvicinare la bocca alla cornetta – nonostante l'assedio alla sua segretaria, “pronto, signora bella, come state?”, così che pure gli intercettatori devono gloriosamente annotare che il dottor Letta né a quelli ha risposto né quelli ha mai richiamato.

    Che poi, a lasciare a bocca aperta non è tanto il gergo di alcuni intercettati, quanto di altri. Ma come è possibile che un personaggio come Formigoni – né incolto né dozzinale né con l'alluce dolente – nelle intercettazioni si esprima che manco l'imbottigliatore dei fiaschi di vino e delle taniche d'olio che vagano dentro l'intera faccenda? “Scusami se ti rompo le balle, ma chi deve camminare sta camminando?”, ed è dubbio il riferimento evangelico agli storpi che fortunatamente andranno sulle loro gambe, e perciò “colui che si è impegnato a camminare velocemente mi dice che non cammina affatto”, riprova che la faccenda è poco celeste, e un altro che chiama e lo informa, “credo che ti arrivi quella mozzarella buona che fanno in casa, la…”. Come si vede, la saggezza dell'abate dell'ancien régime viene buona tanto per il diplomato quanto per il laureato, per il giudice come per il sottosegretario, per il geometra non meno che per il presidente lombardo. Che molti anni fa scrisse un edificante libretto – mai edificante come quello sopra proposto, comunque – “Io e un milioni di amici”: forse sarebbe il caso di cominciare a scremare.

    Galateo, dunque: se proprio non possono tacere, imparassero almeno a parlare. Altro che “lei è la nostra stella, lei infiamma il cielo” oppure “Pasqualino è amico di Giacomino”, che pare di stare dalle parti di “Miseria e nobiltà”, senza spingersi al gustosissimo limite del “io domano stongo pure io a Roma”. Galateo, allora. Già nel suo classico per signorine di buona famiglia, la Contessa Clara (ma siamo a prima dei gettoni, altro che prima dei cellulari) ammoniva: “Si suppone, ragionevolmente, che ogni telefonata abbia la sua precisa ragione…”, e supponeva male, stando alle sterminate registrazioni pubblicate sui giornali, la volenterosa nobildonna. Non si tratta solo di non passare, come un altro degli intercettati ammette, per “'o cchiù scemo da 'a compagnia” (vedendo peraltro lodato sul Corriere il suo “comprensibile minimalismo”), o di cedere a una sorta di spagnoleggiante accattonaggio, “oh, caro amico!” piuttosto che “oh, cara Eccellenza!” (quando una persona di buonsenso si sente chiamare ripetutamente Eccellenza dovrebbe portarsi dietro sempre un cecchino per sicurezza), o la greve rabbia da curva ultrà, “questi stronzi!” – persino dai convegni bisognerebbe stare lontani, tutto un ammorbante bla bla bla pubblico perfetto e surreale controcanto al perepepè delle più appassionanti intercettazioni. Di ogni cricca telefonicamente fiorita – una cricca è una cricca è una cricca, ma sempre e sempre e sempre attaccati al telefono stanno, come coattelli diciottenni – solo virtualmente più avventati, mentre realisticamente sembrano irrimediabilmente situati dalle parti dell'immortale Tina Pica.

    E potrebbe dunque, con ulteriore investimento, Berlusconi far dono alla ciurma che lo assedia (oddio, non che lui sia l'ideale telefonista immaginato dalla Contessa Clara) del bellissimo “Galateo overo trattato de' costumi” di Monsignor Giovanni Della Casa (facendo pure ottima figura con qualche prelato, visto mai: potrebbe sempre passare per editoria religiosa), che rimarcava come “non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice”, e pur considerandola “cosa troppo manifesta” monsignore la rammentava – e il Cavaliere dovrebbe fare altrettanto, “e cioè che tu non dèi giammai favellare che non abbi prima formato nell'animo quello che tu dèi dire, ché così saranno i tuoi ragionamenti parto e non isconciatura”. A farla corta: non raccontare schifezze e prima di aprire bocca usare il cervello: due regolette semplici, e di almeno metà delle cricche (dal punto di vista delle intercettazioni: se poi le schifezze le fanno e non le dicono è altro discorso) si sarebbe risparmiata la penosa messa in scena. Esiste pure un libretto per l'uso misurato del cellulare (“Maledetto telefonino” – titolo premonitore, di Paolo Pichierri, Morellini editore), e la benemerita Società linguistica italiana appena l'anno scorso aveva organizzato un convegno sui diversi codici “tra la lingua scritta e quella parlata” e sul “pericolo di fraintendimenti” (così da Repubblica) rispetto alle intercettazioni.
    Certo il fraintendimento è possibile, ma le parole sono quelle che sono, le frasi sono quelle memorabili lette, le intenzioni (purtroppo) quelle innominabili presentate. E se quando parlano di Cesare è di Berlusconi che stanno parlando, stia in guardia il Cavaliere che è peggio che essere chiamato Eccellenza – magari si tirano dietro, con tanto elevato appellativo, pure il pugnale di Bruto. Comunque, tra tanti utili volumi (e può seriamente prendere consiglio con un appassionato quale Dell'Utri), su un altro meraviglioso classico il premier può senza darsi pensiero risparmiare: il “Libro del Cortegiano” di Baldassar Castiglione: a leggere le intercettazioni c'è da dubitare che ne abbiano preso visione, ma miracolosamente tutti gli intercettati sembrano averlo perfettamente compreso.