La nascita di un partito

Salvatore Merlo

Non è più Forza Italia e non è più il 1994. Con il Pdl Silvio Berlusconi è sceso davvero, per la prima volta, in politica. Sembra che il premier se ne stia accorgendo ogni giorno di più. Ed è forse per questo che appare insofferente, a tratti spaesato, di fronte a una creatura, questo suo strano partito, divenuto incontrollabile dal punto di vista di chi ha costruito tutto se stesso e la propria epica del comando intorno al carisma monocratico, ludico e cinematografico, dei grandi palchi illuminati.

    Non è più Forza Italia e non è più il 1994. Con il Pdl Silvio Berlusconi è sceso davvero, per la prima volta, in politica. Sembra che il premier se ne stia accorgendo ogni giorno di più. Ed è forse per questo che appare insofferente, a tratti spaesato, di fronte a una creatura, questo suo strano partito, divenuto incontrollabile dal punto di vista di chi ha costruito tutto se stesso e la propria epica del comando intorno al carisma monocratico, ludico e cinematografico, dei grandi palchi illuminati dove un solo uomo sulla tolda intona assieme al proprio popolo i gingle elettorali di “Forza Italia” e “Menomale che Silvio c'è”.

    Prima del predellino il Cav. era depositario di un potere alimentato non tanto dalla rappresentanza, ma anche dalla rappresentazione, e quindi estraneo ai sottili meccanismi della politica classica. Ma ormai, certamente suo malgrado, Berlusconi è entrato in un nuovo mondo. In un partito vero – cosa in cui si sta inesorabilmente trasformando il Pdl – si incontrano gli scafati (e mal sopportati) “professionisti della politica”, ci sono anche dei colonnelli ex di An con cui si deve trattare, si affacciano delle correnti da addomesticare, spunta persino quell'oscuro aspetto della dialettica che è “il dissenso”: c'è insomma uno come Gianfranco Fini col quale si deve negoziare nonostante tutto; anche a dispetto dell'antipatia personale. Si parla di “tessere”, di “congressi”, di “sezioni”, di “radicamento sul territorio”. In politica si materializza, di fronte a un leader abituato alla rapidità imprenditoriale della decisione, quell'insieme di meccaniche faticose che, dai tempi di Pericle, si chiama democrazia. Sangue e merda, come tutti sanno, ha detto una volta Rino Formica.

    Gli uomini, le facce, la semiotica degli uffici di presidenza cadenzati mensilmente e, in definitiva, l'estetica rituale di questo nuovo Pdl non hanno più niente a che vedere con la discesa in campo del 1994. Berlusconi, ancora ieri riunito con il proprio stato maggiore che gli chiede un congresso e un tesseramento, si trova lontano mille miglia dal modello funzionalista e suggestivo col quale si era presentato oltre quindici anni fa agli elettori. Sembra passato un secolo dal primo giocoso congresso di Forza Italia. Al Forum di Assago c'erano i coriandoli e le luci psichedeliche, il Cav. – idolo – che cala dall'alto in elicottero, che canta gli inni al karaoke, che assiste all'effetto laser che apre una festa catodica capace di cancellare il ricordo dei vecchi congressi del Novecento, quelli del grigio politburo acquartierato alle spalle del segretario in doppiopetto. Era il primo evento di massa di quella cosa che alcuni già chiamavano impropriamente “partito” (Berlusconi non l'ha mai usata questa parola, “mi fa venire l'orticaria”) e che per Romano Prodi era invece “il nulla, il nulla, il nulla, il nulla”. Dodici anni fa, nel frastuono del Forum di Assago, qualcuno chiese al Cavaliere: “Chi è il numero due di Forza Italia?”. E lui: “E' Gianni Letta!”. “Ah, bene. Ma dov'è adesso Letta?”. “Non c'è”. “Anzi, non è nemmeno iscritto”.

    Per questo oggi non deve sorprendere che Berlusconi sia in difficoltà di fronte alla fronda finiana, alle ambizioni di Giulio Tremonti, alla nascita di Liberamente e alla guerra fredda tra questa nuova corrente e il vecchio gruppo dirigente di FI. E' l'effetto tellurico del suo salto sul predellino di piazza San Babila, l'ovvia conseguenza della fusione con Alleanza nazionale e con il professionismo politico di quei Gianni Alemanno e Gianfranco Fini (ma ormai non sono più soltanto loro) che gli chiedono subito un vero congresso democratico. All'inizio il Cav., che di queste cose ne sa poco, era decisamente favorevole. Pensava forse a una cosa tipo Assago o a una manifestazione del tutto simile al primo congresso del Pdl che lo ha nominato presidente per acclamazione.

    E' passato soltanto un anno e mezzo da quell'evento,
    la nascita del nuovo soggetto politico. Il Foglio, era il 17 marzo 2009, chiese a Italo Bocchino cosa si dovesse fare per candidarsi alla presidenza contro Berlusconi. L'ex vicecapogruppo alla Camera rispose: “Se qualcuno volesse candidarsi, immagino dovrebbe raccogliere le firme e poi farsi votare dall'assise. Ma qualsiasi candidatura che non sia quella di Berlusconi appartiene alla fantapolitica”. Tuttavia, qualora l'imponderabile accadesse, quante firme sarebbero necessarie per candidarsi? “Questo non lo so”. Praticamente non lo sapeva nessuno. L'eventualità non era neanche prevista dallo statuto (“in effetti sulle norme per ulteriori candidature non ci siamo soffermati molto”, ammetteva Ignazio La Russa). Gaetano Quagliariello ci scherzava sopra: “Una candidatura alternativa sarebbe una corsa a ostacoli. Denis Verdini ha già preparato una batteria di arcieri che abbattano il temerario. Sopravvivesse, poi scatterebbe anche una lapidazione sul posto”.

    E' per questo motivo, per evitare un pericoloso equivoco alimentato dalle esperienze del passato, che alcune settimane fa, La Russa – all'apice dello scontro tra il premier e Fini – è andato da Berlusconi per spiegargli cosa fosse esattamente un vero congresso. Insomma, per preparare il capo ed evitargli brutte sorprese. Il colloquio ha avuto un effetto drastico sugli intendimenti del Cav. “Presidente, faccio politica da quando ho i calzoni corti”, ha esordito l'ex colonnello finiano. “Ti dico che, se facciamo il congresso, devi prepararti perché Fini prenderà il 15-20 per cento dei consensi, anche rimanendo seduto al suo posto in prima fila e senza mai parlare. In un partito grande come il Pdl, il dissenso è fisiologico”. E Berlusconi, non senza stupore: “Ma davvero? Allora il congresso non lo faremo mai”.

    Le meccaniche della democrazia politica lo spiazzano
    e, naturalmente, lo innervosiscono. Non perché Berlusconi sia un antidemocratico – cosa di cui lo si accusa pigramente – piuttosto per il semplice motivo che si tratta di regole e astuzie che non gli appartengono e che, anzi, lui ha sempre contestato. Il presidente del Consiglio è persino consapevole di questo proprio limite, difatti – a giorni alterni – è tentato dall'idea di sparigliare, di armare un gruppo pretoriano – una volta è Michela Vittoria Brambilla un'altra volta sono le giovani ministre di FI – che prepari l'ennesimo colpo di marketing creativo: un ritorno a Forza Italia, un passo verso Forza Silvio. Il giorno precedente la ormai famosa direzione nazionale, quella nel corso della quale si mandò reciprocamente a quel paese con Fini, il Cav. ricevette a Palazzo Grazioli Andrea Augello. Il sottosegretario alla Funzione pubblica è uno dei pochissimi finiani per i quali Berlusconi nutre una sincera simpatia.

    “Caro Andrea, ho apprezzato i tuoi sforzi diplomatici per ricucire lo strappo con Fini”, gli dice il Cav. “Ma forse non c'è più nulla da fare. Domani presenteremo un documento, si stabilisce che una volta discussa e votata la linea politica chi non si adegua è fuori dal Pdl. Tu che farai?”. E Augello, comprensibilmente imbarazzato: “Io per la verità credo che voterò contro questo documento”. Al che Berlusconi, mai privo di ironia, si volta di scatto verso un proprio collaboratore presente alla scena: “Ma perché si può anche votare contro?”. E' la rivincita della politica su Berlusconi, verrebbe da dire. Quella politica che proprio grazie (o a causa) di Berlusconi sembrava invece fuoriuscita dal suo ambito tradizionale – voti, tessere, interessi, insediamenti – per inoltrarsi, nell'era dei media elettronici, in una dimensione che è antica, ma al tempo stesso evoluta; formalmente razionale, però così personalizzata da dover ricorrere al mito e alla magia: al carisma; quel genere di profetica sovranità, di turbinoso magnetismo, cui si è dedicato Max Weber al termine della sua lunga vita di studi.

    Che farà adesso il Cav. alle prese con i troppi fili che si attorcigliano intorno al suo Pdl? Ha annunciato – forse minacciato – il proprio stato maggiore di riunirlo in un conclave agostano nella villa sede dell'Università del Pensiero liberale. Che accadrà ad agosto? Difficile immaginare Silvio Berlusconi che accetta davvero una dinamica che non gli appartiene e nella quale, soprattutto, teme di rimanere imbrigliato definitivamente. Finora il premier ha giocato su tutti i tavoli disponibili, quello della pace e quello della guerra con Fini, quello delle logiche di apparato che gli suggerivano i colonnelli e quello del movimentismo delle giovani ministre di Liberamente. Senza mai davvero scegliere, senza mai davvero decidere, senza mai offrire a nessuno all'interno della propria corte le rassicurazioni che pur gli vengono chieste con insistenza. Tanto che, proprio in queste ore, i colonnelli ex di An che per lui hanno rinnegato la loro storia e il loro vecchio leader (Fini), di fronte al rischio di rimanere sospesi e privi di garanzie da parte del capo, hanno cominciato – anche loro – a giocare una partita in proprio che complica ulteriormente la vita del presidente del Consiglio.

    Fino a quando Berlusconi potrà continuare a non fare politica?
    Non certo fino al punto di farsi divorare dagli schemi partitocratici che sembra già aver dimostrato di non riuscire a – o non volere – governare. “Non restano che i colpi di teatro. In questa arte Berlusconi è imbattibile”, ha scritto Rino Formica il 16 luglio scorso in una lettera a questo giornale. Ha suggerito il grande vecchio socialista: “Consiglierei ai grandi e piccoli giornali di non mandare in ferie durante il mese di agosto i migliori velinari disponibili. Si dice al mio paese e, forse anche a Roma, ‘chi mena per primo mena due volte'. Mentre D'Alema sarà in barca, Berlusconi giocherà d'anticipo, anche se la ‘barzelletta' sarà sempre la stessa”. Chissà. E' lo “spariglio” di cui parla da tempo con i propri intimi Renato Schifani?

    Il presidente del Senato,
    spogliatosi per un giorno del gessato istituzionale, meno di un mese fa, sul Corriere della Sera si era fatto latore di un messaggio piuttosto chiaro, rivolto al cofondatore del Pdl, Gianfranco Fini, ma anche a tutto il resto del circo di Palazzo: “O si trova un accordo o si rompe per sempre. Non c'è alternativa”. Anche se, aggiungeva Schifani: Berlusconi ha pure un colpo segreto nel cassetto. E in queste ore, da martedì sera, nel Palazzo si vocifera che il Cav. abbia scelto per lo showdown, una rottura clamorosa con Fini, un rimescolamento delle carte che porti le sue forze – quelle davvero berlusconiane – dentro uno dei due “avatar del Pdl”: o i promotori di Michela Vittoria Brambilla (sembra inverosimile al momento) o dentro l'associazione delle ministre di FI, Liberamente. Di fronte a un Pdl ingovernabile che si trasforma in un partito vero, questa sarebbe la mossa del cavallo, il sistema per non cedere, e non concedersi, alla politica.

    D'altra parte cosa comunicano i suoi messaggi su Internet, al sito del Tg1 e a quello della Brambilla, se non l'ultimo spasmo   di un leader che cerca continuamente di mobilitare il suo popolo fuori dalle liturgie tradizionali? Ma chi può dirlo? Secondo la stessa leggenda, sarebbe per questa ragione – conoscendo le volontà del Cavaliere – che improvvisamente Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa si sarebbero risolti a tendere una mano, un ramoscello d'ulivo, a Fini. I colonnelli non sono disponibili a farsi diluire completamente (“qua rischiamo di diventare soltanto degli ascari”, avrebbe confessato La Russa a un amico) in una creatura a misura esclusiva di Berlusconi. Così coloro i quali più degli altri suggerivano di “spianare” Fini quando questo combatteva stravaganti (per la destra) battaglie sull'immigrazione e la nuova cittadinanza, adesso, mentre Fini imbraccia la bandiera più popolare della legalità, si oppongono a una rottura che – ora e su questo tema – rischierebbe di vederli disarcionati da un cavallo di battaglia storico e ancora vivo dell'identità missina e aennina.
    D'altra parte il problema appare chiaro a tutti e forse appare anche inevitabile l'epilogo. Come ha ammesso Gasparri al Foglio ieri, quasi in una confessione di fatalismo di fronte all'inesorabile corso degli eventi: “Non si può violentare la natura di Berlusconi.

    Non si può neanche far finta di scoprirne oggi,
    scandalizzandosene, le caratteristiche”, cioè la ritrosia nei confronti del rituale politico e partitico, la sua essenza quasi pre costituzionale. Che è la ragione per la quale il premier non ha quasi mai messo piede nel magnifico studio che più di dieci anni fa è stato allestito per lui – e a suo gusto – a via dell'Umiltà, nella sede nazionale di Forza Italia. “Per me il Pdl dev'essere un contenitore che prende forma solida soltanto a ridosso degli appuntamenti elettorali”, ha spiegato una volta. Davvero i dirigenti di FI pensano di poterlo forzare (o persuaderlo) a concedere un congresso? Davvero Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Raffaele Fitto, Roberto Formigoni e gli altri notabili, nel loro generoso sforzo di offrire una prospettiva di vita futura al Pdl, pensano di poter solidificare, organizzare e strutturare la creatura berlusconiana sul territorio? Anche a dispetto di quel Berlusconi che ha una visione aziendalistica dei partiti e delle meccaniche parlamentari? Quel Berlusconi che, sia da premier sia da leader dell'opposizione, ha modificato forse irrimediabilmente nella consuetudine persino i regolamenti e i riti del Parlamento? Da capo dell'opposizione è stato recordman dell'assenteismo; da capo dell'esecutivo non è andato mai a rispondere di persona al question time. Per lui è un fatto personale e istituzionale.

    A nessun altro premier, del resto, scappano candide frasi rivelatrici del tipo: “Sono stato costretto ad andare alla Camera”. Oppure: “Non è piacevole passare la giornata in Parlamento a schiacciare bottoni”. Difficile, impossibile modificarne la più intima natura. Gli sforzi, il lavorìo a tratti persino coraggioso dei dirigenti del Pdl (“dobbiamo anche dirgli cose che non gradisce”) sono destinati a infrangersi contro la leggerissima essenza berlusconiana. Ha scritto Formica, che ragiona con quelle categorie della politica che qualcuno pensa di poter rendere potabili persino per il Cav.: “E' riduttivo e inutile pensare al dopo Berlusconi o al dopo Prodi se non si pensa al dopo-sistema che ci governa da vent'anni… Non sono i presidenti del Consiglio che mancano in questo paese. Mancano i leader della vita politica organizzata… questa è una analisi che non piace ai tanti ‘anti partito' che troviamo a destra e a sinistra, ma se essi sono maggioranza ci dobbiamo rassegnare ad avere un Berlusconi a vita, anche se ibernato”. Dove per “Berlusconi” non si intende soltanto la persona fisica di Silvio Berlusconi, ma un modello – secondo Formica e secondo molti dirigenti del Pdl – apolitico.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.