Processo alla Fiat. Parte seconda
Scommettendo sul pragmatismo nordamericano dell'interlocutore, ieri mattina il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha preso il telefono, ha chiamato direttamente Sergio Marchionne e ha poi dichiarato di aver colto da parte dell'amministratore delegato della Fiat “segnali di disponibilità” prontamente divulgati alla stampa e nel consiglio comunale ovviamente dominato dal tema Serbia vs Mirafiori. E' a questa parola, “disponibilità”, che si aggrappa un Pd deluso.
Scommettendo sul pragmatismo nordamericano dell'interlocutore, ieri mattina il sindaco di Torino Sergio Chiamparino ha preso il telefono, ha chiamato direttamente Sergio Marchionne e ha poi dichiarato di aver colto da parte dell'amministratore delegato della Fiat “segnali di disponibilità” prontamente divulgati alla stampa e nel consiglio comunale ovviamente dominato dal tema Serbia vs Mirafiori. E' a questa parola, “disponibilità”, che si aggrappa un Pd deluso – dopo aver abbracciato con austerità riformista la linea Marchionne su Pomigliano – e in qualche modo orfano di una figura che ha abitato fino a pochi mesi fa la regione del mito, nell'equivoco del manager “socialdemocratico” a sentire Piero Fassino ancora nel febbraio scorso. O del guru cui invidiare modernità e leadership.
Anche se il trasferimento della produzione dei nuovi modelli dell'auto da Mirafiori alla Serbia è per definizione pagina più problematica per il governo, per il Pd il tema è ugualmente insidioso e non solo da un punto di vista filosofico: il governatore del Piemonte, il leghista Roberto Cota, ha invitato anche Chiamparino al tavolo con Fiat e sindacati che il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha convocato per il 28 luglio a Torino. Per fortuna dal punto di vista di Bersani, il premier ha ecceduto in sintesi nel commentare la mossa di Marchionne: “In una libera economia e in un libero stato ogni industria è libera di collocare la produzione dove ritiene più conveniente, spero non avvenga a scapito dell'Italia e dei lavoratori”. La stringatezza del Cav. consente al segretario del Pd di concentrare il fuoco sul governo, sulla sua insufficiente politica industriale e sulla vacanza, almeno fin qui, del ministero dello Sviluppo economico criticata proprio ieri anche dal capo dello stato.
“Il governo non può permettere che ci sia uno che gira il mondo a dire che le cose non si possono fare in Italia”, è la critica di Bersani. “La Fiat ci dica perché deve andare in Serbia, per i salari da 400 euro?”. La domanda retorica sembra tener conto dell'analisi di Luciano Gallino (“il dumping di Marchionne”) in prima pagina su Repubblica: “Il costo del lavoro in un'industria altamente automatizzata rappresenta il 7-8 per cento del costo complessivo di fabbricazione”, ricorda Gallino citando lo stesso Marchionne. La deduzione è che il trasferimento in Serbia, con la riduzione della metà del costo del lavoro, possa far risparmiare al massimo tre o quattro punti e dunque che la situazione complessiva della Fiat non sia poi tanto “rosea”.
Nell'area bersaniana del Pd la lettura più accreditata è che il costo del lavoro sia la “scusa” del manager per l'offensiva anti sindacale. Lo spiega in modo netto Stefano Esposito, quarantenne rampante del Pd torinese che vorrebbe un'iniziativa del partito e l'unità sindacale. “Ho telefonato al braccio destro di Marchionne, Paolo Rebaudengo, e gli ho detto perché mai vi siete fermati alla Serbia, potevate andare in Bosnia avreste speso ancora meno… Ha riso”, racconta Esposito. Aggiunge che “dopo Pomigliano era prevedibile che le cose andassero così, ma certo non così presto. Sarebbe la fine di Mirafiori”. Definire “prevedibile” l'opzione serba significa implicitamente criticare chi, come Enrico Letta, Walter Veltroni e Piero Fassino, si era sbilanciato su posizioni troppo riformiste. Una specie di partito Fiat nel Pd, ora perplesso perfino sulla trattativa convocata da Sacconi.
L'imbarazzo di oggi si misura nella reticenza con cui tutti attendono che la situazione sia più chiara. “Con questa mossa Marchionne ha fatto il capolavoro di mettere in difficoltà anche tutti quelli che avevano sostenuto la linea di un'apertura ai meccanismi di innovazione nelle relazioni industriali. E' riuscito a ricompattare tutti gli altri mondi”, sospira l'economista lettiano Francesco Boccia. All'obiezione che forse a Marchionne questo possa non interessare Boccia risponde con un auspicio: “Mi auguro che la famiglia Agnelli abbia a cuore il rapporto fra auto e paese”.
La cosa più difficile, per il Pd, è ammettere ciò che era stato negato, che Pomigliano fosse solo l'inizio come in effetti dichiarava, allora con una certa baldanza, proprio Sacconi, oggi alle prese con uno scenario ben più drammatico. Il responsabile economico del Pd Stefano Fassina non nasconde di essere stato spiazzato dalla decisione di Marchionne, tuttavia è restio a dare un giudizio tranchant sull'ad della Fiat: “La sua strategia per la Fiat è stata positiva, è la torsione anti sindacale che preoccupa e rischia di danneggiare il progetto che si chiama Italia, peraltro”.
Una cautela che non ha dimora a sinistra del Pd, dove Liberazione può scrivere che Marchionne “ha gettato la maschera”, Nichi Vendola occupa lo spazio inaspettatamente a disposizione parlando di politiche coloniali, la Fiom dà sfogo allo spirito di rivalsa: è colpa nostra se Marchionne sceglie la Serbia ? Quanto basta perché nel Pd diventi d'ora in poi impronunciabile un leitmotiv del dibattito sulla leadership, ovvero che “al centrosinistra serva un Marchionne”. Boccia ci scherza: “Chi potrebbe ancora dirlo?”.
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