100 giorni (di scontento) in Zaiastan
Che fatica costruire il regno dello Zaiastan, se sotto il cielo (della Lega) c'è troppa confusione. Che pena cercare di governare se (quasi) tutti marciano per conto loro e la pace ha un prezzo più alto della guerra. Che impresa dover stare su mille fronti, stretto fra la sua base sempre più nervosa che invoca la Padania e la secessione, gli squilibri di partito e di coalizione, e il rigorismo di Giulio Tremonti che (per ora) non fa sconti alle regioni virtuose.
Che fatica costruire il regno dello Zaiastan, se sotto il cielo (della Lega) c'è troppa confusione. Che pena cercare di governare se (quasi) tutti marciano per conto loro e la pace ha un prezzo più alto della guerra. Che impresa dover stare su mille fronti, stretto fra la sua base sempre più nervosa che invoca la Padania e la secessione, gli squilibri di partito e di coalizione, e il rigorismo di Giulio Tremonti che (per ora) non fa sconti alle regioni virtuose. Con un occhio sempre vigile anche alla comunicazione, che ogni tanto si trasforma in boomerang perché non si può ricostruire l'autonoma Repubblica della Serenissima e proclamare “sarò come Napoleone”, che è stato proprio quello che l'ha annientata, la Serenissima. Luca Zaia, soprannominato “il doge” dopo la sua incoronazione a furor di popolo, è arrivato a tagliare il traguardo dei suoi primi cento giorni claudicante e un po' in affanno.
I motivi balzano all'occhio, a chi voglia perlustrare il suo territorio: sempre più scontento, impaziente, ribelle e anche un po' ingrato. Non è riuscito a fare ciò che aveva promesso per la sua luna di miele con i veneti, ma ha le stesse attenuanti di un presunto innocente. Umberto Bossi tiene ancora la spada di Damocle in mano, ma è arrivato a un bivio, che potrebbe trasformarsi in un vicolo cieco. Perché nessuno sa ancora se riuscirà a portare a casa il federalismo o romperà l'asse con Tremonti; rimarrà fedele a Berlusconi (e ne pagherà il prezzo) oppure farà saltare il banco per ritirarsi nei suoi territori, dove sempre più militanti guardano alla Lega di governo con sospetto e diffidenza. Anche in Veneto. Davanti al suo nome, nessuno riesce a parlar male della persona, del politico, nonostante le attese per ora deluse. Sarà perché si tiene lontano dalle beghe interne che stanno impantanando la Lega, al punto che quando i soldati si affrontano, lui preferisce non sostenere apertamente gli “Zaia boys” per non essere partigiano, dicono a Treviso dove i suoi fan si chiedono perché mai, se nella Lega tutti ormai fanno la propria cordata, lui non debba costruirsene una propria.
Un ossimoro quasi, visto che la sua forza – essere credibile e autorevole per un'intera regione che lo ha acclamato – si è trasformato in suo limite: non poter essere un dittatore democratico come avrebbe voluto, ma solo un abile incassatore. Non ancora per lo meno, visto che la partita è appena cominciata e i leghisti più pragmatici dichiarano: “Dateci tempo fino a settembre, poi si comincia davvero”.
Prima di fare un bilancio contabile di ciò che ha promesso e (non) realizzato Luca Zaia, a palazzo Balbi, guardiamo giù. Laggiù dove i militanti scalpitano davvero. Nella Repubblica autonoma di Verona, dove inizia il potere della Lega in Veneto e del sindaco Flavio Tosi, da sempre considerato una mina vagante da Umberto Bossi. Sempre più potente perché è (apparentemente) “talebano” come l'ex sindaco sceriffo di Treviso, Giancarlo Gentilini, e punta alla pancia dei suoi elettori; perché con le ordinanze e il rigore fa dimenticare ai cittadini ciò che non riesce a fare a livello amministrativo; perché ha dovuto arrendersi davanti a una serie di niet dalla dirigenza del partito, che ha bloccato le sue ambizioni e in cambio gli ha regalato il feudo di Verona. E non solo quello, visto che nella giunta Zaia è riuscito a imporre un suo uomo, l'assessore alla Sanità e geometra Luca Coletto, davanti al quale tutti, leghisti trevigiani ed esponenti dell'opposizione, scuotono la testa perplessi anche perché nel sistema sanitario regionale Verona drena il 30 per cento delle risorse. E allora i soldati dello Zaiastan dicono: “Adesso gli mettiamo (all'assessore Coletto, ndr) una squadra intorno che lo marchi stretto”.
E forse, quando Luca Zaia fa capire che ci sta mettendo più tempo del previsto a usare lo scettro perché è frenato dallo spoils system e non è facile raddrizzare i fedeli di Galan o semplicemente farli fuori, dice una mezza verità perché poi ci sono le fronde interne, i veti incrociati dei suoi assessori, che gli impediscono di mantenere il ritmo serrato che aveva a Treviso, quando era presidente della provincia. Guerra fra Tosi e Zaia? “Magari fosse così”, si augurano i sostenitori del governatore, “purtroppo Zaia vuole andare d'accordo con tutti. E gli costa di più mantenere la pace con Tosi, che sfidarlo a duello”. La fanno facile loro, tanto non devono governare una regione che traina sì l'economia, e regge meglio degli altri la zavorra della crisi, ma poi non riesce a rilanciare lo sviluppo e neanche a ottenere la Tav. La fanno facile loro (e anche Zaia che magari avrebbe dovuto fare promesse più ponderate), ma forse non è affatto facile affrontare uno che a Verona su sessanta sezioni di partito nella provincia è riuscito a farne commissariare 24, ci hanno raccontato i dissidenti interni, con dati alla mano, perché erano fedeli a Federico Bricolo, capogruppo al Senato, diventato pretoriano di Bossi grazie alla mediazione di Rosi Mauro. “A Verona vige un clima di terrore giacobino, e si ricorre spesso alle purghe staliniane”, dicono i suoi avversari, i sostenitori di Bricolo, esagerando un po', ovviamente, perché i veneti sono fatti così: sparano nel mucchio e vedono se ci scappa un morto, per poi ricominciare da capo. Tutti tranne il doge, che invece si logora a mediare, limare, smussare, trattare, contenere conflitti, anche se è consapevole che prima o poi bisogna cominciare a comandare altrimenti fallirà la sua missione di cui, questo bisogna riconoscerglielo, è assolutamente convinto.
“Nella segreteria provinciale della Lega veronese non si discute di politica, ormai si decidono solo le espulsioni”, ci hanno detto e ribadito così in tanti che è impossibile ritenere certe lamentele frutto di frustrazioni personali. Anche perché a stare a sentire loro, i dissidenti, è da tre anni che si va avanti così, da quando la Lega ha cominciato la sua marcia verso il potere e la Liga veneta ha cominciato a mettere le bandierine sui posti che contano e, almeno nella provincia di Verona, si litiga su tutto, anche sulle chiusure del centro storico di un borgo da duemila abitanti.
Non è così a Treviso, dove Zaia ha iniziato il suo cammino verso l'Olimpo e dove il sindaco è Giampaolo Gobbo, capo del partito in Veneto, con cui Zaia va d'accordo. Lui è quello che Bossi ha definito con una battuta “il mio imam” e che, fin dove ha potuto, ha tenuto a freno le ambizioni di Flavio Tosi. Il quale Tosi però pare destinato a succedergli nella carica importantissima di segretario nazionale (che per noi analfabeti poi sarebbe segretario regionale, ma per la Lega le regioni equivalgono alle nazioni). Perché pare che Gobbo sia invece destinato a sostituire l'odiato (dalla Lega) Dino De Poli, l'ottuagenario presidente della cassaforte della fondazione Cassamarca nel 2012, quando scadrà il suo mandato. Se a Treviso le sezioni sono spaccate, non è dato saperlo. Tutti dicono che non ci sono divisioni, anche se i più perfidi affermano che il presidente della provincia, Leonardo Muraro, abbia un po' voltato le spalle a Zaia, ma noi su questo punto non abbiamo trovato conferme. La provincia di Treviso è ente locale che Zaia, e questo glielo riconoscono tutti, leghisti e oppositori, ha trasformato in protagonista istituzionale della politica territoriale con un'abile intraprendenza che tutti si aspettavano da lui anche alla guida della regione. A Treviso tutti preferiscono mantenere il profilo basso, e semmai parlano delle divisioni fra gli uomini.
Per esempio quella tra Federico Caner, capogruppo della Lega in regione che potrebbe ambire alla poltrona del sindaco Gobbo, e l'amico fraterno di Luca Zaia, Fulvio Pettenà, ex presidente del Consiglio provinciale di Treviso, di mestiere montatore di impianti di aria condizionata, primo dei non eletti in regione, che però non ha usato i suoi condizionatori per fare la guerra fredda e ha accettato la sconfitta con sereno fatalismo. “Noi leghisti siamo soldati e, quando ci chiedono com'era il rancio, rispondiamo buonissimo comandante”, scherza lui, compagno di pizze domenicali con Zaia.
A sentire gli oppositori invece (do you remember il Pd veneto?), i leghisti nel regno di Zaia e di Gobbo si stanno dividendo le poltrone, senza avere prima costruito una classe dirigente valida, ed ecco perché un postino è diventato consigliere d'amministrazione delle Poste italiane, qualcun altro è riuscito ad avere addirittura dieci incarichi fra collegi sindacali e cda di enti pubblici, mentre altri sono rimasti a mani vuote e rosicano parecchio. “Bandierine e poltroncine, per ora”, dice l'ex sindaco di Mogliano, Diego Bottacin, consigliere regionale del Pd, quello che nel suo partito ha dato più apertura di credito a Zaia il giorno del suo insediamento. Ha assicurato che molti dei suoi obiettivi, come cambiare lo statuto e il regolamento del Consiglio regionale per poter governare senza rimanere immobili nelle secche dell'ostruzionismo, erano assolutamente condivisibili. Ma poi ha dovuto ritirare la mano tesa perché nulla è stato fatto, anche per colpa del suo partito, ci spiega, che avrebbe potuto aiutare il governatore a comandare, ma non ha fatto nulla per avere la presidenza della commissione per la modifica dello statuto regionale, che per i veneti equivale alla loro costituzione e alla possibilità di avere una reale autonomia. E così la presidenza della commissione è rimasta a un consigliere del Pdl, Carlo Alberto Tessarin, che l'ha avuta nella scorsa legislatura, fanno notare i leghisti, per farci capire la china gattopardesca intrapresa dalla nuova regione.
“Zaia ha creato troppe attese e il risultato è sotto gli occhi di tutti: poche decisioni prese, delibere tutte di ordinaria amministrazione, nessun passo verso le riforme”, chiosa Bottacin. Riforme, riforme riforme. Solo di questo si parla nei piani alti della società veneta che, come per il resto d'Italia, ha sperato per un attimo che i governatori potessero sostituire i politici romani e dare risposte immediate. Come è emerso dall'ultima assemblea degli imprenditori vicentini, che nel 2006 hanno regalato una standing ovation al premier Berlusconi e il 14 giugno scorso si sono spellati le mani alla presenza di Luca Zaia e Nichi Vendola, mentre discutevano di federalismo, dopo che il presidente degli industriali Roberto Zuccato ha fatto una relazione audace per chiedere con timbro baritonale un vero cambiamento di politica economica. Ecco perché ora gli imprenditori fanno discorsi molto generici per non dire che la luna di miele è quasi finita, anche se sono stati avvisati che devono avere pazienza, perché se il federalismo si farà loro dovranno aspettare fino al 2016 per vederne le ricadute positive. E infatti, all'assemblea di Treviso, gli imprenditori sono stati più tiepidi con il governatore, che è sembrato un po' nervoso, mentre a Padova il presidente degli industriali, Francesco Peghin, lo ha quasi implorato: “Non permetta, presidente, che il federalismo fiscale venga soffocato nella culla”.
E infatti all'appuntamento annuale della classe dirigente veneta, a Padova, dove dieci giorni fa la fondazione Nord Est ha esposto il bilancio sanitario della propria economia, è emerso un dato rilevante: il Veneto non è più il popolo delle partite Iva (con buona pace dei detrattori dei nordestini) perché per la prima volta il numero dei lavoratori dipendenti ha superato la media nazionale. Una novità che ai piani bassi (leghisti) si traduce cosi: il territorio e la fede autonomista è stata tradita. E lo dicono con lo stesso tono che usavano gli ex partigiani quando parlavano della rivoluzione tradita.
Certo, qui non ci sono fucili in cantina, checché ne dica Bossi, e la ribellione può essere solo di carattere fiscale, ma se il segretario provinciale della Lega di Treviso, sindaco di Vittorio Veneto, Gianantonio Da Re – baffoni che tradiscono la sua origine comunista e discorsi che cercano di fare una sintesi fra Lega di lotta e quella di governo – si indigna quando gli si rammenta che forse il federalismo fiscale sarà solo una compartecipazione regionale alle tasse dello stato centrale e si chiede come mai Zaia non mandi a casa i consiglieri regionali per imporre la sua volontà con maggior decisionismo o non cerchi almeno di spaventarli un po'. Altri hanno ricominciato a parlare ad alta voce di secessione (e non di successione, come invece fanno i lumbard davanti alle imbarazzanti uscite di Bossi per sostenere il figlio Renzo, ex trota, ora delfino). Come fa per esempio Gianluigi Casagrande, segretario di una circoscrizione importante della Lega trevigiana, a Oderzo, che riunisce undici comuni e insiste: “Ma lei non ha notato che a Pontida quest'anno erano in tanti a urlare secessione?”. E anche se Zaia nel suo programma di governo ha inserito, assieme all'autonomia del Veneto, gli accordi strategici per fare una macroregione che arrivi nel cuore dell'Europa, lui che è medico precisa: “ Zaia è un grande, ma sia chiaro che noi vogliamo la Padania”. In effetti a sentire Franco Manzato, assessore all'Agricoltura della giunta Zaia, la Padania ha un confine molto duttile. Manzato, che presto farà gli stati generali degli agricoltori veneti, pensa a un'area strategica, protetta, con la Sassonia, le Asturie, la Baviera e parte del Belgio (quello separatista) per rilanciare lo sviluppo economico della regione.
Un'area che potrà essere allargata al Veneto solo quando il verbo dell'autonomia finanziaria si potrà coniugare con una vera indipendenza della regione. Manzato è considerato un tecnico molto preparato, ma politicamente troppo prudente. Peccato che sia salito sul carro dalla parte sbagliata, perché non è un fedele di Zaia, ma semmai è legato a Bepi Covre, ex sindaco leghista del comune trevigiano di Oderzo, considerato un po' eretico, che ormai può permettersi di fare il vecchio saggio, dopo esser stato un fondatore del movimento dei sindaci con Massimo Cacciari. E da ex socialista, rivendica il suo riformismo: “Ma quale secessione, ci vuole pragmatismo, con l'ideologia non si va da nessuna parte”, ma poi ammette che il partito pesante, l'altra faccia del radicamento territoriale, crea un affollamento per posti e poltrone in prima fila che non ha fatto bene alla Lega. Su Zaia consiglia maggiore indulgenza: “Ha in mano un tir, diamogli tempo”. L'estensione geografica della Lega in Veneto è vasta e la storia delle sue odierne divisioni anche, visto che arriva fino Venezia, dove commissariamenti e faide interne sono ormai recidive.
Frutto di anni di tensioni fra diverse generazioni e distinti approcci alla politica, anche se non è lì che si combatte la guerra, ma semmai dentro la giunta che Zaia non riesce ancora a comandare, visto che ci ha messo più di tre mesi per decidere le nomine dei dirigenti perché non si riusciva a trovare un equilibrio fra le richieste di Tosi, le pressioni degli alleati e l'impellente necessità di cominciare a usare il potere con maggiore decisionismo. Certo, ora Lega e Pdl promettono di lavorare anche in agosto, pur di centrare l'obiettivo che Zaia ha promesso all'inizio del suo mandato. Dopo che il governatore ha chiesto a tutti di mettere da parte i tatticismi per aggiornare la carta costituente del Veneto. Anche se ora il vero problema è affrontare la mancanza di liquidità delle imprese, i tagli imposti da Tremonti, e su questo punto Zaia invece ha appena incassato il plauso del segretario della Cisl, Franca Porto, perché la regione aprirà un tavolo con sindacati e parti sociali per affrontare la crisi e ridisegnare un nuovo modello di sviluppo. “Luca Zaia ci stupirà perché la Lega ha una cultura popolare e non populista”, ha dichiarato. Intanto il governatore è finalmente riuscito a far nominare alla segreteria della Programmazione regionale un fedelissimo, Tiziano Baggio, che avrà un ruolo strategico nella guida della macchina istituzionale e può ridare fiato agli aspiranti sudditi dello Zaiastan. E l'aspirante re, con un colpo da maestro, ha ottenuto la nomina di un consigliere diplomatico della Farnesina incaricato di rappresentare anche un'aspirante nazione, quella veneta, che tutti sognano, e nessuno riesce ancora a immaginare.
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