Kill climate bill

Nemmeno Obama riesce a ridurre le emissioni di CO2

Carlo Stagnaro

“Dovevo prendere una decisione. Ecco la mia decisione. Sappiamo di non avere i voti”. Con poche e fredde parole, il capogruppo democratico al Senato Usa, Harry Reid, ha alzato la bandiera bianca sul “cap and trade” per ridurre le emissioni di gas serra. Dopo 18 mesi di confronto durissimo al Senato, e nonostante la norma abbia già ricevuto da più di un anno il via libera della Camera, è arrivato il momento della resa.

    “Dovevo prendere una decisione. Ecco la mia decisione. Sappiamo di non avere i voti”. Con poche e fredde parole, il capogruppo democratico al Senato Usa, Harry Reid, ha alzato la bandiera bianca sul “cap and trade” per ridurre le emissioni di gas serra. Dopo 18 mesi di confronto durissimo al Senato, e nonostante la norma abbia già ricevuto da più di un anno il via libera della Camera, è arrivato il momento della resa. I numeri sono inequivocabili: ci vogliono 60 voti. I senatori democratici sono 59. Non è stato possibile trovare un solo dissidente repubblicano. In compenso, non mancano i franchi tiratori nel partito dell'Asinello: lo scorso 10 giugno il Senato ha respinto di strettissima misura un emendamento della repubblicana Lisa Murkowski che puntava a limitare la facoltà dell'Agenzia per la protezione dell'ambiente di regolamentare la CO2 come un gas inquinante. In quell'occasione, tre democratici erano tra i firmatari della mozione, e altri tre l'hanno supportata.

    Dietro il fallimento democratico ci sono varie componenti. Una è, ovviamente, il peso della crisi, che fin dalle promesse elettorali di Barack Obama il Foglio aveva individuato come l'iceberg contro cui il l'eco Titanic si sarebbe sfasciato: di fronte ai primi germogli di ripresa, gli avversari hanno avuto gioco facile a bollare il “climate bill” come “a job-killing energy tax” o “the greatest tax increase in American history”. Mettere un tetto alle emissioni in un paese dove il carbone soddisfa metà della produzione elettrica e impiega 174.000 addetti avrebbe l'effetto di far crescere i prezzi dell'energia e indebolire la crescita economica. A nulla è servita la retorica sul “green deal”, né quella sui posti di lavoro verdi in cambio di quelli “sporchi”: del resto, il Congressional budget office – il centro studi del Congresso – ha certificato che il provvedimento avrebbe ridotto, seppur lievemente, sia l'occupazione, sia il livello medio dei salari. Né l'evidenza dall'Europa, che ha documentato la potenziale distruzione di posti di lavoro in Spagna, Germania, Danimarca e Italia ha aiutato il mondo ambientalista americano a tenere il punto. Cruciale è stato pure l'inatteso successo dei tea parties, che hanno costretto i repubblicani alle barricate contro i principali provvedimenti obamiani, dal clima all'immigrazione, dalla riforma sanitaria a quella della finanza: senza le pressioni della società civile, è probabile che alcuni repubblicani moderati avrebbero fornito il loro aiuto.

    Questa sconfitta avrà ripercussioni pesanti. Negli Usa, nonostante i democratici della Camera ancora ci sperino, e a dispetto del tentativo dello stesso Reid di fare proposte meno ambiziose ma comunque significative, si tratta di un'oggettiva sconfitta del presidente, proprio alla vigilia delle elezioni di mid term. A livello globale, la battuta d'arresto americana sancisce l'assoluta inutilità del vertice delle Nazioni unite in programma a dicembre a Cancun. Senza il voto del Senato su una manovra puramente domestica, è impensabile che l'amministrazione possa negoziare alcunché a livello internazionale. E il 2012, anno di scadenza del protocollo di Kyoto, si fa sempre più vicino. Ciò potrebbe sancire il fallimento di un processo negoziale iniziato nel 1992, culminato nel 1997 a Kyoto, e poi segnato da una progressiva disillusione – tranne per la speranza che Obama potesse invertire la rotta fissata dall'odiatissimo George W. Bush, da cui in verità Washington non si è discostata.

    Ma, soprattutto, quello che resta è il sapore acre della sconfitta per chi ha assistito impotente al crepuscolo degli dei: a Copenhagen è svanito il sogno di una comunità internazionale eco entusiasta, poi lo scandalo del Climategate ha segnato la credibilità dell'Ipcc (il comitato dell'Onu sul clima), oggi si sciolgono le residue aspettative su Obama. Nel silenzio e nello sconforto, resta l'eco del discorso – a suo modo illuminante – del venezuelano Hugo Chávez a Copenhagen: “Se il clima fosse una banca, l'avrebbero salvato”. Nelle intenzioni, stava accusando le élite occidentali di disinteresse per l'ambiente. Le sue parole, però, si possono leggere anche in un altro senso: a differenza delle banche, forse sta crescendo semplicemente la convinzione che il clima non è in pericolo.