Colonnelli contro, il dramma tutto finiano dietro il divorzio

Stefano Di Michele

Bastava uno sguardo, una volta. Il fumo della sigaretta dritto sulla faccia, ma gli occhi che vagavano in alto. Una smorfia sulle labbra sottili – disprezzo muto, e dunque ancora più sprezzante. Per anni e anni, dal seppellimento del Msi in poi, dentro An la gerarchia fu chiara, e fu gerarchia dura: un solo capo, un pugno di colonnelli, un'adunata di militanti. Il capo ordinava, i colonnelli ubbidivano, l'adunata seguiva.

    Bastava uno sguardo, una volta. Il fumo della sigaretta dritto sulla faccia, ma gli occhi che vagavano in alto. Una smorfia sulle labbra sottili – disprezzo muto, e dunque ancora più sprezzante. Per anni e anni, dal seppellimento del Msi in poi, dentro An la gerarchia fu chiara, e fu gerarchia dura: un solo capo, un pugno di colonnelli, un'adunata di militanti. Il capo ordinava, i colonnelli ubbidivano, l'adunata seguiva. Il capo non amava i suoi colonnelli – nonostante la retorica iniziale di “quando ci sentivamo come i negri in Sudafrica con l'apartheid”, la costruzione virtuale di una sorta di eroismo antemarcia: niente confidenze o cene o vacanze insieme. Niente cameratismo, per carità. Amicizia, solo lo stretto indispensabile a pubblico uso della militanza. I colonnelli un po' si mostravano beati e grati per il grado raggiunto – una semi onnipotenza è pur sempre meglio di una semi marginalità – un po' mormoravano. Un giorno, in un bar, mormorarono un po' più forte del dovuto – e chi voleva prendere a schiaffi il capo per svegliarlo, chi raccontava di mani tremanti – e il loro mormorìo scavalcò la trincea del gruppo. Così il capo ne venne a conoscenza.

    Formalmente, s'intende – ché ogni cosa sapeva, e certo immaginava: ma quel giorno al bar gli incauti del suo stato maggiore varcarono la linea di confine, quella che richiede il pubblico elogio pur lasciando correre il privato malessere. “Saranno c.... vostri!”, disse il capo. I colonnelli mandarono un dispaccio di scuse: “Inutile dirti quanto ci dispiaccia…”. Furono travolti, destituiti, esposti al pubblico ludibrio. E il vecchio coro delle beatitudini (“Io sono davvero finiano, lo dico con orgoglio”: Gasparri) fu prima atterrito, poi pian piano si fece cauto bisbiglio, “non dobbiamo tutto a Fini”. E ora – e dopo altri anni di innominabile sopportazione: i colonnelli, per il capo, mai alla sua altezza; il capo, per i colonnelli, mai loro misura – l'esplosione finale: ciò che una volta apparve come gregge un po' indocile farsi branco di colpo, lanciato verso la gola (politica) del vecchio capo, che intanto anch'esso ha mutato il suo silenzioso disprezzo in disprezzo quasi urlato (“G. taccia!”), e allora s'infiammano come mai fu permesso loro (“F. piantala!”).

    Perché questa storia – che è appena cominciata con lo squartamento violento di quella vecchia – ha due elementi che più di ogni altro la caratterizzano: s'avvia con una serie innumerevole di tentati delitti (politici), e soprattutto, per quanto riguarda i colonnelli che furono e quelli che ora sono, l'arrivo in scena – roba vecchia di anni, ma l'innamoramento ha suoi tempi e  sue espressioni – di un nuovo capo. Ognuno uccide e rischia di restare ucciso, in questo vortice politico che toglie il poco respiro che l'afa lascia. Cattivi per non morire i colonnelli del vecchio capo, cattivi per non morire i nuovi colonnelli dello stesso vecchio capo – e i Granata e i Briguglio e i Bocchino, pure loro lanciati verso la gola (politica) di quel capopopolo un po' arruffato ma così seducente – che non ti fuma in faccia, che ti abbraccia, che ti consola, che ti telefona, che manda fiori  alla tua signora. E se Donna Assunta uccide con poche micidiali battute il figlio politico di suo marito (“Ai giardinetti!”), Berlusconi ossessivamente vuol porre fine all'esistenza di chi cavò dal buco postfascista durante un rito in un supermercato, e pertanto la sua creatura mira al patricidio – perché tutti hanno speranza, e tutti hanno paura. E i colonnelli degli anni passati che ora fronteggiano i colonnelli di fresco grado, branco contro branco – cattivi ognuno a motivo di personale sopravvivenza.

    Ché appunto, nel grande pirotecnico spettacolo che sta andando in scena – la dissoluzione di un partito, i tentativi degli uni di dissolvere gli altri – se si libera la scena dalla presenza dei napoleonici principali contendenti, questo resta: colonnelli contro colonnelli. Ed è scena solo finiana – l'altro fronte non ha stato maggiore, casomai corte babelica. Forse per antiche ascendenze – ah, la saggezza dei colonnelli!, e un giorno due tra i più quotati,  Gasparri e La Russa, ricordavano ridendo antichi slogan giovanili di supporto ora al colonnello greco, ora a quello turco, sperando in quello italiano, “Ankara, Atene/ Roma adesso viene!”. Nessuno fu più colonnello di loro – e forse altrove hanno i seguaci, i delfini, i fedeli, ma il mezzo graduato mai: l'evocato non si vide, e loro si fecero, con ragione e con convenienza, ciò che evocavano (e come “colonnellume” li apostrofò un giorno un collega, graduato ministeriale di breve durata). Così all'antico capo, che lotta per sopravvivere all'ira del loro capo attuale, tocca mettere in scena altri colonnelli e lanciarli temerari nella battaglia, a misurare il terreno e dunque la possibilità di scampare. Di là, il Cav. mobilita allo stesso scopo quello che fu il corpo di guardia del suo nuovo nemico. Baldanzosi i colonnelli s'avanzano e rumoreggiano, forse il bruciore del fumo di una sigaretta ancora negli occhi.