La volta che mi trovai, confuso e felice, in mezzo a quel rito forsennato
Anche io mi feci un rave party, anzi come si dice da quelle parti, una “rave partie”. Era aprile, il Muro di Berlino sarebbe caduto di lì a qualche mese e ricordo che era una sera stranamente tiepida quando venne a trovarmi un'amica. Venticinque anni, bella e burrosa, vestita sempre in modo succinto e provocante, sono una fashion victim diceva, Hélène riusciva misteriosamente ad attraversare indenne le notti e le città.
Anche io mi feci un rave party, anzi come si dice da quelle parti, una “rave partie”. Era aprile, il Muro di Berlino sarebbe caduto di lì a qualche mese e ricordo che era una sera stranamente tiepida quando venne a trovarmi un'amica. Venticinque anni, bella e burrosa, vestita sempre in modo succinto e provocante, sono una fashion victim diceva, Hélène riusciva misteriosamente ad attraversare indenne le notti e le città, attratta da feste, balli e sballi, avventurandosi in quartieri in cui nemmeno la polizia osava entrare. Era nata in campagna ma sembrava forgiata dalle mani di Andy Warhol come concrezione dell'anima metropolitana del mondo. Sono venuta a prenderti mi dice, devi assolutamente venire con me a una festa, non la solita festa, ne ho già viste due così, una a Londra, l'altra ad Amsterdam, non puoi capire, questa è la prima a Parigi quindi muovi il tuo culo, ti proibisco di startene nella tana. Ma tu sei matta, la festa, ho quaranta anni io.
Resistenza puramente canina la mia, basta un suo sguardo assassino e dico vengo ovunque, così eccomi in macchina, pronto ad attraversare la città, prendere l'autostrada, direzione Roissy-Charles De Gaulle, uscita imprecisata. La meta è l'ultimo piano di un deposito di stoccaggio abbandonato, sul lato ovest ben oltre l'aeroporto, secondo le indicazioni in codice che le radio gay diffondevano dal primo pomeriggio. Dalla borsa Hélène tira fuori una pasticca di colore rosa, con un maiale stampigliato da una parte, è ecstasy, dice, la migliore in circolazione, la chiamano la Gorbaciov ma non chiedermi perché, all'inizio ti darà un po' di fastidio, suderai, avrai vampate di calore, ma non c'è problema perché la salita dura al massimo mezz'ora, la discesa invece è senza fine ed è un incanto, d'altronde mica puoi stare una notte a dimenarti con la musica che ti schianta la testa se non sei in uno stato secondo, e poi nella vita bisogna provare tutto almeno una volta, quindi ingoia e fidati di me, mon chou. Al punto in cui ero non potevo fare altro che fidarmi. Usciti dall'autostrada, l'itinerario si fa sempre più complicato, il panorama sempre più spettrale, una sfilza di terreni incolti, fabbriche e costruzioni abbandonate.
Finalmente arriviamo al deposito. E' imponente, sarà lungo una cinquantina di metri, conto otto piani sventrati e usati come parcheggio, saliamo su una vecchia rampa elicoidale. Sul tetto da dove si vedono le luci dell'aeroporto c'è come appoggiata una grande calotta di cemento senza aperture. L'ingresso è una porta di metallo, sorvegliata da un paio di armadi, testa rasata, tatuaggi, piercing, giubbotti di pelle nera indossati a pelle e dovutamente borchiati. Mi vedono in giacca e camicia, mi squadrano, cerco di darmi un contegno, sghignazzano, si rivolgono a lei “ma che sei venuta con tonton”, mo' glielo faccio vedere io lo zio a questi due, lei sorride e tutto svanisce, anche i due tre tipi allampanati che recitano il prontuario completo delle sostanze psicotrope da asporto, grazie, dice lei, abbiamo già fatto spesa. La porta si apre: una massa di aria calda che sa di corpi sudati e una musica insopportabile mi aggrediscono, non so dire quale per prima. Entriamo, un'enorme sala circolare, il pavimento è in cemento a vista, le pareti anche. Si balla ovunque, migliaia di corpi tagliati da fasci di luce che si muovono in totale autonomia e disarmonia, non è un ballo, è un rito forsennato e primitivo, da origine della specie. Resto impietrito, mi schiaccio contro la parete, resto così per una buona decina di minuti. Lei scompare.
Resto solo, in territorio estraneo e ostile, devo prendere assolutamente confidenza con il buio, con questi flash intermittenti e violenti che frugano ovunque, con un suono come non l'avevo mai sentito, con la frenesia indotta. Devo sopravvivere, perciò non posso che fidarmi. Sento che la Gorbaciov sta lavorando, sorrido, non oso nemmeno immaginare la faccia che posso avere. Lei torna con due bicchieroni, ci mancano pure un gin tonic e un whisky sour ma non mollo la parete, qualcuno mi chiede dov'è il bagno, ho la giacca evidentemente mi ha preso per il proprietario del luogo. Fumo una sigaretta dopo l'altra, poi Hélène mi prende per mano, è tempo di lasciarsi andare, dice. Non so né come né quanto abbiamo ballato, sarebbe più esatto dire il mio corpo si sia agitato accanto al suo, il mio in un mondo, il suo in un altro, entità separate e amiche, come separato e amico mi sembrava ognuno di quei corpi, sarà stato l'effetto Gorbaciov ma giuro che me li sarei abbracciati tutti, mi sarei annusato e strofinato con ogni creatura di quel mondo animale. Ce ne andammo che era mattino fatto, ma ancora buio e con una di quelle nebbie che ti fanno triste dentro. Ma mi sentivo leggero. E felice. Del passaggio della Gorbaciov ricordo solo una piccola fitta ai reni, al risveglio. E ancora oggi mi sento colmo di gratitudine nei confronti della mia amica.
Il Foglio sportivo - in corpore sano