Imbarcadero fest

Mariarosa Mancuso

Locarno è un luogo ameno dove il pontile dei battelli che i parlanti italiano chiamano “Imbarcadero” viene chiamato “Debarcadero”. Se avverti l'albergo che hai lasciato la macchina con le chiavi inserite (intendendo: così potete spostarla, al momento blocca l'uscita di sei auto e non so quante biciclette), rispondono con un certo orgoglio: “Stia tranquilla, siamo in Svizzera”.

    Locarno è un luogo ameno dove il pontile dei battelli che i parlanti italiano chiamano “Imbarcadero” viene chiamato “Debarcadero”. Se avverti l'albergo che hai lasciato la macchina con le chiavi inserite (intendendo: così potete spostarla, al momento blocca l'uscita di sei auto e non so quante biciclette), rispondono con un certo orgoglio: “Stia tranquilla, siamo in Svizzera”. A smuovere un po' la pacifica atmosfera del Festival, che negli ultimi anni era diventato un rifugio sicuro per cinefili anni Settanta, arriva il nuovo direttore Olivier Père. Marsigliese d'origine, quarant'anni ancora da compiere, alle spalle l'obbligatorio tirocinio come programmatore alla Cinémathèque parigina e come critico per il settimanale très branché Les Inrockuptibles, dal 2004 al 2008 ha scelto i film per la Quinzaine des Réalisateurs di Cannes (la sezione post Sessattottina, non competitiva, e aperta – sia pure con lunghe attese – agli spettatori che pagano il biglietto).

    Certe dichiarazioni di intenti, sulle rive del lago, equivalgono all'ascia di guerra dissotterrata. “Non ho scelto i film in base ai contenuti”, annuncia il direttore. E aggiunge: “Non voglio quel tipo di pellicole che ha la noia come valore aggiunto”. Un buon inizio, o almeno lo speriamo: significa che non vedremo soltanto storie di poveri, né sperimentazioni portate all'estremo (intanto prendiamo nota: è la prima volta che la parola “noia” entra nel lessico dell'ufficialità festivaliera). Nel mezzo ci sono i film fatti bene, e proprio questi (concorrenza permettendo) sono stati scelti per la 63° edizione del Festival. Finora lo garantisce Olivier Père, che però discorre ancora troppo spesso di “scoperta” e “autore” per essere creduto sulla parola. Trattandosi perlopiù di opere prime, e se non sono prime sono di registi sconosciuti, bisognerà vederle prima di giudicare. Intanto però si chiacchiera su un altro fattaccio. Sostengono infatti i bene informati (e la notizia è stata rilanciata dal radiogiornale della Svizzera italiana) che Olivier Père abbia chiesto ai giornali di non mandare i soliti inviati in pista da decenni. Meglio qualche giovanotto in grado di apprezzare i film di genere, fastascienza e horror soprattutto, e una storia come quella di “L. A. Zombie”, che neppure il Festival di Melbourne ha voluto proiettare. Trattasi infatti di un micidiale cocktail di vampirismo, omosessualità, cadaveri rianimati con penetrazioni da porno-movie (fate conto il paletto nel cuore, un po' più in basso, rigido ma non di frassino), diretto da Bruce LaBruce, noto per una variazione gay di “Arancia meccanica”.

    “Certe scene possono turbare la sensibilità degli spettatori”, avverte la scritta sul programma. Vietati ai minori sono anche certi titoli proiettati all'aperto in Piazza Grande, come “Rambock” di Marvin Kren (virus che trasforma in maniaci omicidi) o “Das Letzte Schweigen” di Baran bo Odar (violenza pedofila). Minaccia per il pubblico che non ama le emozioni grevi. E soprattutto minaccia per gli incassi, che a Locarno (come a Berlino) integrano i contributi pubblici e i soldi degli sponsor con i biglietti venduti. Quanti saranno gli spettatori (e i critici) attratti da “Rubber”, il film di Quentin Dupieux che racconta uno pneumatico assassino per amore? Sembra più adatto al pubblico locarnese “Svet-Ake” (“Il ladro di luce”, diretto da Aktan Arym Kubat): un elettricista e l'arte di arrangiarsi nel Kirghizistan post sovietico. Il film d'apertura non ha placato chi teme le novità, né rassicurato chi teme che la cinefilia spinta torni sotto mentite spoglie. “Au fond des bois” di Benoît Jacquot racconta un ottocentesco ragazzo selvaggio, forse anche mago, che seduce e porta con sé nei boschi una catatonica signorina (strappandola al padre medico dei poveri). La prima mezz'ora promette bene, anche per merito degli attori. Poi il film si avvita su se stesso, e gli attori pure. Non bastano per risollevarlo il nome di Jacques Lacan e il promesso ragionamento sull'amore.