La Lega dell'Ottocento

Carolina de Stefano

La Francia di inizio ‘800 era ebbra di rivoluzione, neofita di democrazia, esaltata dal nuovo e alla ricerca disperata di stabilità politica. Non importava che Tocqueville fosse un aristocratico che aveva visto l'America mentre Pierre-Joseph Proudhon avesse dovuto fare l'operaio in una tipografia per sostenere le economie del padre bottaio e continuare a studiare. I due filosofi, dopo mezzo secolo di vite e idee ben diverse, arrivarono alla stessa conclusione.

    La Francia di inizio ‘800 era ebbra di rivoluzione, neofita di democrazia, esaltata dal nuovo e alla ricerca disperata di stabilità politica. Non importava che Alexis de Tocqueville fosse un aristocratico che aveva visto l'America mentre Pierre-Joseph Proudhon avesse dovuto fare l'operaio in una tipografia per sostenere le economie del padre bottaio e continuare a studiare. I due filosofi, dopo mezzo secolo di vite e idee ben diverse, arrivarono alla stessa conclusione: il federalismo era l'esaltazione politica della Democrazia e la risposta istituzionale di cui la Francia aveva bisogno.

    Nell'Assemblea Nazionale del 1848 il Conte Alexis era un membro del “partito dell'Ordine”, il filosofo di Besançon rappresentava invece posizioni molto più rivoluzionarie di tutta l'estrema sinistra di cui faceva parte. Eppure i due, che personalmente non si conoscevano, si sarebbero anche potuti piacere. A ossessionarli era la stessa questione: la ricerca di un modello di Democrazia ideale, che in Tocqueville significava un contrappeso di libertà individuale ad un'uguaglianza meschinamente conformista, in Proudhon coincideva con un equilibrio tra egalitarismo e giustizia sociale. Erano entrambi pragmatici, attratti dalla libertà e terrorizzati dal giacobinismo che in quegli anni in nome della democrazia assolutizzava le idee e scalpitava per centralizzare lo Stato. Dopo che l'uno aveva vissuto negli Stati Uniti e l'altro aveva osservato l'efficienza dei sistemi politici del Belgio e dell'Elvezia, si convisero infine che la decentralizzazione avrebbe combattuto lo statalismo, dato un ordine nuovo alla Francia e risolto nella pratica la causa principale delle loro speculazioni.

    È normale però che, considerate le loro rispettive esperienze
    e origini familiari, le premesse da cui partirono per arrivare al federalismo fossero parallele e diverse. Innanzitutto, ciò che interessava il sociologo Tocqueville era l'azione individuale, l'homo faber, l'uomo che si relazionava con i suoi simili mantenendo la sua innata liberté d'esprit.
    Al contrario, per Proudhon il singolo era prodotto della società contingente. Per un proletario istruito come lui, il rapporto tra classi sociali era tutto, la liquidazione del capitalismo necessaria.
    L'aristocratico Alexis era terrorizzato dalla democrazia nel suo amalgamare il popolo con ceti, parole sue, “sufficientemente illuminati”. Proudhon aveva invece da anarchico sempre lottato proprio per questo. Era lui il figlio di una cuoca, lui che si era pagato gli studi e che non poteva accettare, avendola vissuta, l'ingiustizia della povertà.

    Tocqueville temeva lo slancio giacobino dell'epoca perché lo considerava antirazionale, filosofia pura e inutile, causa di due disastrose conseguenze sociali. La prima avrebbe portato l'uomo democratico imbevuto di Idee generali e di rivendicata quanto estrema Uguaglianza a credere di stare seguendo la sua ragione e a finire per uniformarsi ciecamente alle trite opinioni dei più.
    In secondo luogo, l'alimentarsi di principi, lezioni ideali, belle parole, avrebbe reso la realtà, la concretezza dell'amministrazione della res publica, cosa misera. Ognuno sarebbe stato travolto dall'autocompiacimento di detenere la Verità assoluta senza più bisogno di interessarsi ad altri. Inoltre, e soprattutto, l'uguaglianza avrebbe soppresso l'identità di classe, che pur nei suoi difetti, aveva permesso di riconoscersi in qualcosa e di individuare problemi comuni per cui mobilitarsi. In sintesi, l'uomo democratico, nella sua forma degenerativa, avrebbe ucciso il cittadino.

    La preoccupazione di Tocqueville, più che morale, era concreta. Era certo che la morte del civismo, la volontà di essere forzatamente Uguali, il trionfo della neutra opinione della maggioranza, avrebbe portato al suicidio della Libertà e, politicamente, al dispotismo.Se si voleva la democrazia bisognava preservare l'innata libertà umana, unica passione capace di rivelare desideri intimi, di motivare un'azione razionale e costruttiva, di iniettare l'interesse per la res publica e indurre quindi alla partecipazione politica. Per riuscirci e opporsi all'accentramento egualitario, servivano dei contropoteri e delle istituzioni decentrate. Tocqueville non nominò mai la parola federalismo, ma di federalismo si trattava, e due erano le virtù del sistema. Decentralizzazione significava sia autonomia e protezione del singolo dal potere centrale, sia gestione condivisa di questioni locali che facevano coincidere l'interesse personale con quello comune, e avrebbero quindi portato il singolo a impegnarsi politicamente. Tocqueville non arrivò mai a chiedersi precisamente in che maniera, a livello di competenze e istituzioni, questo federalismo si sarebbe attuato.

    Proudhon aveva elaborato idee più tecniche e sistematiche al riguardo, negli ultimi quindici anni della sua vita si occupò quasi solo di questo. Le riflessioni del filosofo di Besançon erano inizialmente economiche, incentrate sul concetto di proprietà.
    Voleva la rivoluzione proletaria, ma detestava essere preso per un comunista. Era convinto che il monopolio statale dei mezzi di produzione portasse a una situazione paradossale, in cui la lotta contro la proprietà privata si risolveva in un semplice cambio di proprietario senza modificare la sostanza del problema.
    Per una democrazia che fosse anche giusta, non capitalista ma nemmeno giacobina, la strada era quindi da cercare altrove.
    Come prima cosa bisognava regolare i rapporti economici fondandoli su un contratto sociale garantista. Un patto non rousseauniano, perché formato da una volontà comune manifestata in vari atti avente lo scopo di assicurare il massimo margine di autonomia possibile a tutti i contraenti.
    In pratica, Proudhon immaginava una repubblica di produttori esclusivamente proprietari di ciò che potevano far fruttare, organizzati in famiglie industriali e corporazioni protette da diritto e mutualità.

    Per quanto questa visione si fondasse su basi anarchiche, il salto politico che lo fece diventare negli anni '40 un fautore del federalismo fu coerente. Anarchia era per lui preservazione della libertà individuale, e lo stesso principio autonomistico si rifletteva nella necessità di istituzioni decentralizzate. Lasciando all'uomo libera iniziativa, l'Ordine si sarebbe creato grazie all'organizzazione spontanea di associazioni politiche ed economiche. Il federalismo di Proudhon fu nuovo perché integrale, applicato a ogni aspetto della società. Fabbriche autogestite e politica locale contrapposte all'accentramento. Il suo progetto era anche qualcosa di più: era mondiale, unico per tutte le Nazioni; e la Francia postrivoluzionaria era per lui la guida predestinata di questa rivoluzione universale. Grazie a un sistema federale l'accentramento politico si scongiurava, la Libertà era salva, l'uomo di Tocqueville avrebbe potuto esaltare la sua individualità immergendosi, non scomparendo, in una società proudhoniana senza ingiustizie. In sostanza il federalismo, promosso da individui pensanti, era necessario e bipartisan già due secoli fa.