Casa triste casa

Stefano Di Michele

Forse, con gli otto punti della sua dichiarazione certo sofferta e un tantino asmatica (nel senso che, qua e là, resta come l'impressione che qualcosa manchi, e non è il respiro) Gianfranco Fini ha detto tutto quello che poteva dire, sulla faccenda più grottesca che scandalosa della casa di Montecarlo. Ma non ha detto, onestamente, tutto ciò che era necessario dire. O almeno quello che era necessario per far tacere una campagna che aveva per obiettivo il presidente della Camera.

Leggi Qui si accasa l'asino, cronache tristanzuole da Montecarlo di Giuliano Ferrara

    Forse, con gli otto punti della sua dichiarazione certo sofferta e un tantino asmatica (nel senso che, qua e là, resta come l'impressione che qualcosa manchi, e non è il respiro) Gianfranco Fini ha detto tutto quello che poteva dire, sulla faccenda più grottesca che scandalosa della casa di Montecarlo. Ma non ha detto, onestamente, tutto ciò che era necessario dire. O almeno quello che era necessario per far tacere una campagna – traboccata ormai dal berlusconismo hard ai quotidiani di più democratico sentire – che aveva per obiettivo il presidente della Camera – e che il presidente della Camera ha raggiunto e colpito. Se (politicamente) a morte, o solo ferito, anatra zoppicante ancor prima di spiccare il volo inaugurale, è questione che si appurerà nelle prossime settimane, ma per il momento (e significativamente dopo il pronunciamento degli otto punti) Fini ha perfetto e suggestivo riscontro metaforico nel gigantesco iceberg, candido e ammirevole, che si è staccato, nelle stesse ore della sua stupefatta presa di posizione, dal polo (nel caso non berlusconiano): a vederlo fa impressione, ma inevitabilmente naviga verso lo squagliamento.

    C'è una parola che Fini adopera e che  insieme fa sorridere e dà per intero la dimensione del suo scoramento: “Disappunto”. Così dice: di aver provato “disappunto” e “sorpresa” quando “Elisabetta Tulliani” – nome e cognome, come su un verbale: pur compagna di vita, pur madre delle sue figlie – gli comunicò, e si deve immaginare che scena e che pena, dove aveva trovato accasamento il fratellino Giancarlo, quello che in tutte le foto ha uno sguardo da finto tenebroso e un pendaglio al collo che Fini stesso deve trovare disdicevole, almeno fin dal giorno in cui saggiamente decise di togliersi lui il braccialetto a maglie che portava decenni fa. “Disappunto” pare parola da niente – si prova disappunto quando ci si accorge che è finito il caffè in casa, che il gatto ha fatto la pipì sul tappeto, che una patacca sfregia la cravatta – quasi evocativa del berlusconiano “cribbio!” nel momento in cui il vagante microfono di un cronista gli finì sui denti, ma nella costruzione dell'immaginario politico e filologico del finismo – così ponderato che a molti dei suoi è apparso infine così glaciale – è simile a un urlo di dolore, a un ululato costernato e rabbioso. “Disappunto” è parola che significa poco, e per questo nell'autodifesa del presidente della Camera a molti è sembrata tanto. Piena di dolente abbandono, se non ancora di rassegnazione. Quasi immediatamente associata – pur nell'oggettiva diversità – al magistrale, scajoliano “a mia insaputa” che rimise l'ex ministro dello Sviluppo economico sulla strada verso il feudo ligure, tra il non sapere chi paga e il non sapere chi abita.

    Ci sono espressioni che galleggiano – come smarriti pinguini sull'iceberg di cui sopra – sospese e inerti nella messa a punto finiana: “Non so assolutamente nulla”, “il sig. Giancarlo Tulliani mi disse che, in base alle sue relazioni e conoscenze nel settore immobiliare a Montecarlo”, “alcun dirigente di An contestò o sollevò perplessità”. Uno legge e sospira: e allora?
    Nonostante la contentezza pasquale di delusi ex cofondatori, che a motivo di personale resurrezione esultano, e senza mettere in dubbio – né nel Principato né nella Repubblica – l'onestà del presidente Fini, questa della casa lasciata da una fervente camerata ai camerati che furono, e rovinata sull'ex camerata ora degna icona democratica, è un'altra istruttiva vicenda del disastro patrio. Dove tra immobili e parenti, e giù giù zoccole e servitori, pataccari e gossipari, i reciproci ventilatori puntati che schizzano fango e merda nel campo avverso funzionano a pieno ritmo e a pieno carico – così da arrivare con il loro getto al livello della bocca della politica, che se non vuol rispondere con lo stesso impeto e lo stesso materiale tace per la paura di dover ingoiare oltre, nell'eterno duello escrementizio in corso. Il puro più puro che ti epura raramente è migliore dell'epurato del momento, e anche questo ha di singolare l'attuale condizione: che nella pioggia di fango e merda l'impuro di ieri si muta nel puro di oggi che sarà ancora l'impuro di domani: circolo vizioso – e al momento inattaccabile. Perciò: Fini ha fatto il possibile, ma il suo possibile – triste e solitario e c'è da sperare non finale – forse non muta la sua sorte, e sicuramente neanche quella della politica italiana.

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