Il destino dei campioni nazionali

Beppe Di Corrado

A un certo punto il talento diventa la targhetta su una porta. Una qualifica, un ruolo, una definizione, cioè tutto quello che di talento non ha bisogno. Il calcio succhia il genio per sputare un compito che sembra importante e invece alla fine è inutile. Roberto Baggio capo del settore tecnico della Federazione italiana giuoco calcio. Che cos'è? Non lo sa neanche lui. E' il contenitore modellato male per contenere un genio incontenibile.

    A un certo punto il talento diventa la targhetta su una porta. Una qualifica, un ruolo, una definizione, cioè tutto quello che di talento non ha bisogno. Il calcio succhia il genio per sputare un compito che sembra importante e invece alla fine è inutile. Roberto Baggio capo del settore tecnico della Federazione italiana giuoco calcio. Che cos'è? Non lo sa neanche lui. E' il contenitore modellato male per contenere un genio incontenibile. E' un'etichetta che serve a raccontarci di aver imbarcato a bordo della nuova Italia pallonara l'uomo che questo paese ha amato calcisticamente più di ogni altro. E' marketing, anzi posizionamento: come se il pallone fosse lo scaffale di un supermercato e Baggio il prodotto da mettere davanti a tutti per invogliare all'acquisto. E' sempre un'operazione simpatia: la speranza che la gente abbocchi sempre a una trovata dopo una grande delusione. Il calcio italiano s'è inebriato nel 2006 e per quattro anni è rimasto immobile. S'è svegliato con lo schiaffone del Mondiale sudafricano e adesso s'inventa questa idea.

    Baggio, poi Rivera, poi Sacchi:
    nomi come scatole da riempire con qualcosa. Una volta questi avevano il talento e il genio, oggi hanno un nome. Perché siamo così noi: arriva quel punto lì in cui decidiamo che la targhetta sulla porta conti di più di quello che puoi dare veramente. Il calcio diventa come tutto il resto: quanti tra i migliori lavoratori si sono trovati ripescati in onore della propria indiscussa capacità, promossi e messi lì da qualche parte con il prestigio apparente e il nulla da gestire. La promozione per mettere da parte qualcuno è un vizio italiano quanto straniero, ma noi siamo bravissimi a non perderlo mai. Forse è colpa di Baggio, di Rivera, di Sacchi? Dici: avrebbero dovuto rifiutare, avrebbero dovuto chiarire. Può darsi, ma che fai quando il tuo mondo ti resuscita dall'oblio per far finta di affidarti la sua rimonta dopo una mazzata? Certo che si può rifiutare, però è umano non farlo: per la speranza di poter cambiare il sistema e per la normale sensazione di risarcimento che la convocazione può comportare. Perché i geni spesso si lasciano prendere dalla voglia di anonimato e di solitudine, aiutano il mondo a dimenticarli, a metterli da parte, a chiuderli nel passato, però poi restano incollati comunque a quell'idea di se stessi nel momento di maggior splendore. Sacchi se lo ricorda quando era il re del pallone mondiale: il Milan, la Nazionale, tutti che lo imitavano, il sacchismo che diventava un modo di vivere e di allenare. Ha scelto lui di smettere, ma non ha mai detto di voler essere dimenticato. Pensa la gioia che avrà provato il giorno in cui gli hanno detto “torna perché ci servi con un nuovo ruolo”. Anche Rivera non dimentica. Persino Baggio, che l'eremita lo faceva già da calciatore, sarà stato felice quando gli hanno detto: “Roby ci servi. Servi al calcio e servi all'Italia”. 

    Il problema non è dei grandi che finiscono per essere chiamati solo per fare scena. Il problema è di chi la scena la costruisce. Il calcio italiano è lo specchio di un paese che ha il terrore del talento: dice di cercarlo, sostiene di coltivarlo, poi però si spaventa non appena lo individua. Meglio tenerlo a bada, confinarlo in un ruolo, in uno stipendio, in una onorificenza. E' il terrore che la mediocrità venga scoperta, che il genio di uno oscuri le difficoltà degli altri. E' stata la logica con cui hanno costruito la Nazionale degli ultimi mondiali, solo che lì addirittura il talento non è stato neanche emarginato, è stato del tutto eliminato. Ora no: ora è partita l'operazione recupero. Finta come la realtà. Ti prendo i campioni di una volta, quelli che facevano godere la gente, e li uso in qualche modo. Quale? Siamo sempre lì: il contenuto è secondario rispetto al contenitore. E' un'abitudine, forse dobbiamo rassegnarci. E' così che hanno spacciato per fondamentale il ruolo di Gigi Riva. Anche lui è stato un talento mortificato. Gli hanno dato una scrivania e una qualifica di accompagnatore. E' il confessore delle star incomprese, il grande che parla la lingua dei grandi e viene rispettato. Eppure Riva avrebbe potuto essere usato meglio che come psicologo improvvisato. Fondamentale, dicono. Certo. Come ogni campione vero, Riva sarebbe fondamentale anche da lustrascarpe. Non è il giudizio che conta, ma come il giudizio si possa formare: Riva avrebbe potuto essere qualunque cosa ed è comunque molto meno di quanto avrebbe meritato. Il calcio ha bisogno di uomini e di idee, non di omini del Subbuteo da usare come soprammobili solo perché sono il nostro passato glorioso.

    Baggio è stato fuori per troppo tempo e il calcio senza di lui è stato vuoto. Se torna non può essere per una scrivania da riempire a Coverciano. Lo devono buttare su un campo e fargli fare quello che vuole. Come quando giocava. Una panchina per consegnare al pallone qualcosa che non ha mai pensato di poter avere: il giocatore più sopportato dagli allenatori che comincia ad allenare per dire che si può avere gente come lui in una squadra, per ridare la speranza a chi è un calciatore atipico e incompreso, senza ruolo vero, ma unico. Il calcio è uno sport con troppa nostalgia e troppo poca memoria. Corre appresso al presente, sotterra il passato tranne quando fa chic e antimoderno: quando serve la telecronaca anni 80 per arricchire la lamentela classica: “Com'era bello quando c'erano i numeri dall'uno all'undici e i gol si vedevano a Novantesimo minuto. La verità è che la nostalgia vera dovrebbe venire adesso che vedi uno come Roby e pensi come il pallone accantoni i suoi figli, piccoli dèi cresciuti e spremuti; mette da parte sentimenti e rancori. Insabbia il ricordo, per tirarlo fuori al momento buono: l'immagine che torna, il commento, la telecronaca, il magone, lo stomaco indurito. Ieri diventa oggi, di nuovo. Ma non con lui, adesso. Giornali e commentatori si sono sprecati in dotte analisi, in festanti proiezioni: il grande ritorno di Baggio. Hanno fatto il paragone con Maradona. Solo che Diego è stato preso dalla fossa che si era scavato da solo ed è stato messo a fare il commissario tecnico della Nazionale argentina, Roby è stato prelevato da casa dove stava benissimo per dargli la responsabilità del settore tecnico di Coverciano. C'è una differenza enorme e chi non la vede è strabico. Qualcuno ricorda chi fosse il precedente personaggio nel ruolo attuale di Baggio? Anzi qualcuno sa se l'Italia avesse prima una persona in quell'incarico? A Maradona gli hanno dato in mano il paese, a Baggio abbiamo dato una poltrona. Diego ha fallito perché nel calcio succede, non perché hanno fatto il passo più lungo della gamba. Diego ha fallito e non c'entra l'esperienza, altrimenti non si capirebbe perché sia accaduto contemporaneamente e in maniera ben peggiore a Capello e Lippi. Non regge la favoletta del “bisogna cominciare dal basso”. A uno che è stato Re, non gli chiedi di riprendere da Vassallo. Al massimo non gli chiedi nulla.

    Platini è presidente dell'Uefa e prima di allora era stato anche commissario tecnico della Nazionale francese senza essere passato per altre caselle minori. E' come pensare che un premio Nobel per la Letteratura voglia cominciare a insegnare e debba farlo dalle elementari. No. O gli dai una cattedra universitaria o non gli dai niente. La verità, una delle tante verità, è che se qualcuno avesse avuto il coraggio di prendere Roby e di metterlo a fare il numero uno di qualcosa vera, saremmo tornati al solito Baggio sì, Baggio no. Un ritornello vecchio e pure nuovissimo. Guelfi e ghibellini ancora una volta. Cioè l'Italia, quindi noi. Tutto per lui, Roberto non Dino, quello giusto insomma, col Budda, il Veneto e tutto il resto, con i piedi italiani migliori degli ultimi trent'anni, con una personalità strana, con un peso, con un cognome, con un nome, con l'etichetta, con la speranza che ha rappresentato, con le ginocchia distrutte, con la classe, con il genio, con i fantasmi, con Boston e la Nigeria, con New York e la Bulgaria, con Pasadena e il Brasile, con gli undici metri prima dell'eternità, con gli amici e i nemici, con quelli che “uno come lui si porta sempre e quelli che uno come lui si porta solo se gioca”.

    Qui non si parla di lui in quanto lui. Baggio è il simbolo del protagonista mancante di quest'era: il talento. C'è anche se non si vede, se non si racconta più. C'è e ha bisogno solo del coraggio altrui: qualcuno che abbia davvero le palle per rischiare e giocarsi tutto. Allora un presidente che prenda Roberto come allenatore, uno che prenda Sacchi come direttore tecnico, un altro che usi Riva come fa il Real con Di Stefano, ovvero l'icona vivente di una grandezza pallonara. Se è la Figc va benissimo, ma se fosse qualcun altro andrebbe bene lo stesso. D'altronde in Germania, Beckenbauer è stato tutto senza avere l'obbligo istituzionale di cominciare da qualche posto inutile. Quelli sono dei burocrati, non dei campioni. Ci sarà qualcuno pronto a farlo? Difficile. Vogliamo dei figuranti, non dei protagonisti. Abbiamo paura che la notorietà altrui schiacci il nostro sprazzo di visibilità. Siamo così e non c'è niente da fare: è l'invidia che azzoppa il mondo e quindi anche il calcio. Roberto Mancini fu osteggiato clamorosamente dalla categoria degli allenatori. “Non ha il patentino”, dicevano. Perché le regole sono l'appiglio che la mediocrità cerca e trova per sconfiggere la genialità. Ora uno può amare o no Mancini, può giudicarlo bravo o scarso, intelligente o presuntuoso. Però può farlo perché scavalcare le regole ha permesso di mostrarci chi è Mancini allenatore. Non vengano a raccontare che la legge deve essere uguale per tutti: a uno come Mancini serviva un pezzo di carta per dire se avesse diritto ad allenare o no? E a Baggio tantomeno. Che Roberto stia facendo il supercorso di Coverciano per poter essere un allenatore è ridicolo. Un paradosso della burocrazia. Nessuno ha il diritto di dare una patente a uno così perché sarebbe come dire che il Papa debba fare un corso tenuto da un parroco per celebrare una messa.

    Allora di che parliamo? L'Italia si sciacqua la bocca parlando dell'estero, inseguendo modelli di cultura sportiva superiori e poi esulta perché la Federazione vuole mettere dietro una scrivania l'allenatore più rivoluzionario della sua storia (Sacchi), il talento più puro dal Dopoguerra agli anni 80 (Rivera) e la gemma più preziosa della sua storia recente (Baggio). C'è qualcosa che non funziona in questo meccanismo. Gli altri, quelli che inseguiamo, stendono tappeti rossi ai loro fenomeni che hanno smesso di giocare o di allenare, non li riempiono di aria con la speranza che prendino il volo per chissà quale destinazione. Non pretendono che li si ringrazi se l'unica cosa che sono in grado di offrire è una qualifica vuota. L'Italia ha deciso di usare il talento solo se fa parte di un progetto, siccome però progetti non ce ne sono, anche i talenti non emergono. Meglio la mediocrità no? Una sana, robusta e vigliacca mediocrità. E' per questo che abbiamo fatto in modo che José Mourinho abbia faticato così tanto a integrarsi. Il calcio italiano è convinto ancora oggi che l'anomalia fosse lui. Dicevano pure che in Inghilterra lo detestavano e non vedevano l'ora di sbolognarlo. Bugie. Anche Mou è stato vittima dell'idiosincrasia per il talento che abbiamo da qualche anno. Semplicemente era il migliore e questo non andava bene. Emergeva e questo creava scompiglio. Era vincente e questo non piaceva. Noi i talenti, i geni, i diversi li vogliamo vedere senza goderceli perché non sappiamo farlo. José probabilmente sarebbe andato via anche senza il Real. Non per colpa dell'Inter, ma del sistema del nostro folle calcio. Quello che accomuna tutto questo con la straordinaria avventura della nostra Nazionale in Sudafrica: in nome del “gruppo che è più importante di ogni cosa” prendiamo il meglio e lo umiliamo. E così niente gruppo perché esiste solo quando si vince. E' il nostro mondo, quello raccontato da Massimo Gramellini sulla Stampa dopo il pareggio dell'Italia contro la Nuova Zelanda: “L'abbattimento di ogni personalità dissonante viene chiamato ‘spirito di squadra'.

    Ma è zerbinocrazia. Tutti proni al servizio del capo, è così che si vince. Eppure la storia insegna che il capo viene tradito dai mediocri, mai dai talenti. I quali sono più difficili da gestire, ma se motivati nel modo giusto, metteranno a disposizione del leader la propria energia. La Nazionale di Lippi assomiglia alla nazione non perché è vecchia, ma perché privilegia, appunto, i mediocri. Averli avuti ieri in panchina, certi vecchi! Contro i goffi neozelandesi sarebbe servito più un quarto d'ora di Totti o di Del Piero che una vita intera di Iaquinta, Pepe e Di Natale, tre bravi figli che, con tutto il rispetto, se hanno giocato anni e anni nell'Udinese, una ragione ci dovrà pur essere. I pochi campioni veri, da Buffon a Pirlo, sono zoppi. Oppure vecchie glorie che si rifiutano di andare in pensione, come l'imbarazzante Cannavaro che ha più o meno l'età di Altafini e forse avrebbe fatto meglio a presentarsi in Sudafrica anche lui nelle vesti di commentatore”.

    Ecco, se la risposta è prendere i talenti del passato e usarli per dire di aver cambiato strategia, significa esattamente il contrario. Vuol dire che siamo convinti che in fin dei conti la soluzione sia sempre quella: coltivare quelli meno bravi usando i migliori solo come schermo protettivo. Serve? E se serve a chi? Una scrivania è una consolazione, non il rimedio. E' un risarcimento, appunto. Che poi ottiene come unico risultato la mancanza di responsabilità da parte di chi hai messo dietro quella scrivania. Non servono ruoli, serve un'idea. Serve fiducia, coraggio, voglia. Serve quello che non c'è. Quello che c'è altrove, che vogliamo copiare a modo nostro. Sbagliando anche il verbo che conosciamo benissimo, sappiamo essere un errore, ma che pensiamo sia giusto soltanto perché così lo usano gli altri. Solo che non ci accorgiamo delle differenze, fermi come siamo all'apparenza più che alla sostanza. Altrove le qualifiche prevedono potere e il potere prevede impegno, voglia, passione, risultati. Chi sbaglia va a casa, anche se piace alla gente. Qui invece vai a casa solo perché alla gente non piaci più.