Si fa presto a dire “cognato”. Filologia di un legame secondo i romani

Nicoletta Tiliacos

Studiare le forme della parentela “significa raggiungere il cuore stesso di una società”. Lo scrive il filologo classico Maurizio Bettini, chiamando a testimoni  studiosi del calibro di Claude Lévi-Strauss ed Émile Benveniste, nel suo saggio “Affari di famiglia” (il Mulino). A dispetto del titolo allusivamente pop, quello di Bettini è un dotto excursus sulla parentela nella letteratura e nella cultura antica, nel quale si analizzano le radici e l'evoluzione di termini che, a volte cambiati di segno, sono stati accolti nel lessico comune.

    Studiare le forme della parentela “significa raggiungere il cuore stesso di una società”. Lo scrive il filologo classico Maurizio Bettini, chiamando a testimoni  studiosi del calibro di Claude Lévi-Strauss ed Émile Benveniste, nel suo saggio “Affari di famiglia” (il Mulino). A dispetto del titolo allusivamente pop, quello di Bettini è un dotto excursus sulla parentela nella letteratura e nella cultura antica, nel quale si analizzano le radici e l'evoluzione di termini che, a volte cambiati di segno, sono stati accolti nel lessico comune.

    A proposito del termine “cognato”, per esempio, di cui la cronaca va assai disquisendo in questo periodo, il libro di Bettini ci informa che gli antichi romani facevano differenza tra “agnati” e “cognati”: i primi erano i consanguinei imparentati per via maschile (è il caso, tra gli altri, dei figli maschi o femmine del fratello e dei fratelli maschi o femmine del padre) ed erano considerati in posizione preminente rispetto ai secondi, i consanguinei per via femminile (il figlio o la figlia della sorella e il fratello o la sorella della madre). Ma se il legame agnatizio determinava “più stretti legami di colleganza”, la categoria dei cognati, per quanto in apparenza più generica, poteva indicare “qualsiasi tipo di consanguineo”. Rivestiva un'importanza, per così dire, riassuntiva. Il cognato, nella Roma antica, era semplicemente il parente, colui che condivideva il medesimo ceppo genealogico e quindi antenati comuni (da “co-nascor”, nascere insieme).

    Salta così agli occhi una prima differenza sostanziale rispetto all'uso odierno del termine “cognato”. Per i romani era un consanguineo, per noi è diventato invece ciò che si definisce “parente acquisito”, nobilitato e caricato di importanza da un termine latino che allude alla parentela pura. I romani riservavano invece ai parenti per via di matrimonio la qualifica di “adfines”, “una sfera più nebulosa e meno definita di quella dei cognati” (romanamente intesi, naturalmente). Nelle fonti, scrive Bettini, troviamo documentata l'appartenenza agli “adfines” di suocero, genero, nuora, patrigno, matrigna e figliastri. Parrebbe assente il riconoscimento esplicito del cognato come oggi lo intendiamo, vale a dire il fratello o la sorella del proprio coniuge e il coniuge  del/la proprio/a fratello/sorella. Come mai, allora, e attraverso quali passaggi si è arrivati all'odierna accezione di “cognato”?

    Bettini lo spiega con un passo di Modestino, giurista vissuto nel III secolo dopo Cristo: “Sono ‘adfines' i parenti del marito e della moglie, detti in questo modo per il fatto che due ‘cognationes' (parentele) diverse tra loro si uniscono tramite un matrimonio, e l'una così si trova a confinare con l'altra”. Lo stesso Modestino, spiega Bettini, “fornisce una giusta esegesi di questa immagine linguistica: tramite una relazione di matrimonio, infatti, due ‘cognationes' prima distanti diventano ‘confinanti' fra loro, si trovano a condividere un medesimo ‘finis'”.
    L'adfinis è dunque “qualcuno che si è impegnato con me in un progetto comune, ovverosia nel matrimonio fra due appartenenti alle nostre rispettive cerchie”. Va notato, peraltro, che l'adfinitas (categoria alla quale appartiene il cognato attualmente inteso) può sviluppare, secondo la  prudente visione romana, sia “un significato metaforico di ‘compartecipazione'”, sia quello peggiorativo di “complicità”: la vicinanza parentale si realizza “tramite una forma di ‘società', un consorzio stabilito tra le parti”.

    In ogni caso, l'ampia accezione di “cognatio”, comprensiva di “adfinitas” e di “agnatio”, indicava “coloro che il giurista Elio Gallo (un illustre coetaneo di Cicerone, ndr) definiva ‘necessarii': nel senso di quei ‘parenti o affini, verso i quali si hanno obblighi necessari superiori a quelli che si hanno verso gli altri'”.
    Insomma, non si è cognati (o adfines o agnati) tanto per dire o a tempo perso: “A tutti questi necessarii si è legati da una rete di doveri e di comportamenti, imposti dalla solidarietà parentale”. Scrive ancora Bettini che, “di sicuro, comunque, nelle consuetudini della solidarietà parentale rientrava la partecipazione alla ‘Cara cognatio': una festa di parenti cui solo cognati e adfines potevano intervenire, e in cui ci si preoccupava soprattutto di rinsaldare l'unità del gruppo”.