Ground islam. Così si spezza l'illusione della “newyorkesità”

Stefano Pistolini

La nostra è una guerra di religione? No, ha ribadito venerdì Barack Obama, mettendo infine bocca dove gli sarebbe convenuto astenersi – peccato che fosse inevitabile: “In quanto cittadino e presidente, credo che in questa nazione i musulmani abbiano lo stesso diritto degli altri di praticare la loro religione, compreso il diritto di costruire un luogo di culto a Manhattan. Il nostro impegno a favore della libertà di culto dev'essere inalterabile”.

    La nostra è una guerra di religione? No, ha ribadito venerdì Barack Obama, mettendo infine bocca dove gli sarebbe convenuto astenersi – peccato che fosse inevitabile: “In quanto cittadino e presidente, credo che in questa nazione i musulmani abbiano lo stesso diritto degli altri di praticare la loro religione, compreso il diritto di costruire un luogo di culto a Manhattan. Il nostro impegno a favore della libertà di culto dev'essere inalterabile”. Non è una mera riproposizione del primo emendamento della Costituzione: è un cerino che dà fuoco alle polveri. Si può cominciare: la serpe in seno, il diavolo dentro l'armadio, i kamikaze a Battery Park, il “ciascuno parli chiaro: pro o contro l'America?”. 24 ore dopo Obama prova a smussare: nel suo discorso avrebbe ribadito i diritti disponibili per chiunque viva in America, ma non ha espresso un giudizio personale sullo specifico, insomma non ha detto se quella della moschea vicino a Ground Zero sia o no una buona idea. Ma è chiaro che per lui, ben più che per i predecessori, un dibattito sulla questione islamica rappresenterà un rischio potenzialmente fatale in vista degli appuntamenti elettorali che l'attendono.

    Tornando sulle posizioni del discorso del Cairo del 2009, quello del “nuovo inizio” nelle relazioni con l'islam, Obama rilancia sul terreno della tolleranza, ma stuzzica in modo irresistibile la resistenza nervosa o oggi ben più rumorosa di ieri, aggregatasi attorno ai tea parties, ad alcuni talk show di Fox News e a un'infinità di blog conservatori. Nell'occasione, del resto, la maggioranza dei politici democratici ha preferito tacere, girando alla larga da queste acque pericolose. Mentre per tanti repubblicani è stato il momento per poter finalmente dire: “Visto? Da anni lo diciamo: Barack Hussein è un musulmano in maschera”. Può andare in scena lo scontro poco edificante tra la nuova chiusura della mente americana e la miope sciatteria del politicamente corretto: tormentoni della campagna per il voto di medio termine che sta cominciando. Con la moschea a due passi da Ground Zero nel ruolo della madre di tutte le guerre culturali del 2010. Ben oltre le prime avvisaglie, quelle sulla provocatoria insensibilità di chi ha promosso questo progetto. Ben oltre gli editoriali di Charles Krauthammer sul WP, che scrivendo “Non si apre un negozio di alcolici accanto a una scuola”, stabilisce i toni della sua intolleranza.

    L'apparente titolare dell'iniziativa, l'imam Rauf, procede a sua volta ad aggiustamenti che hanno il sapore d'una strategia: prima rinuncia all'idea di battezzare l'edificio “Cordoba House” per celebrare la città spagnola dell'incontro tra culture diverse, ammettendo la pericolosità dell'allusione, vista l'egemonia islamica in quell'episodio storico. Meglio tornare alla denominazione “Park51” che è l'incontestabile indirizzo della moschea. Poi, addirittura a colpi di Twitter, Rauf e Sharif El-Gamal, il costruttore che si occuperà del progetto da 100 milioni di dollari, si sono detti disposti a incontrare il governatore Paterson, che nel frattempo si aggira tra conferenze stampa e talk show proponendo di fare sì la moschea, ma non proprio in quel posto, citando “l'enorme quantità di ansia” generata dalla questione “non senza ragione”. “Possiamo parlarne. Ma restando in zona”, precisa “Park51”. I due ultimi sindaci-star di New York City nel frattempo hanno esposto la loro, diametralmente opposta. Il sindaco in carica Bloomberg si è sbilanciato, assumendo toni di leadership visionaria inconsueti per un tipo pratico come lui. In sostanza ha detto che New York è New York perché c'è spazio per tutti, negarlo sarebbe negare lo spirito della città e dell'America. Giuliani ha invece parlato d'una dissacrazione che qualsiasi “musulmano decente” non si sognerebbe di commettere.

    Newt Gingrich, sempre a caccia di visibilità pre-elettorale, ha picchiato più duro: “Costruire quella struttura sopra il campo di battaglia generato da radicali islamici è un'affermazione politica di scioccante arroganza e ipocrisia”. E gli editorialisti hanno definito il dibattito teorico: la “preziosa libertà” del progetto originale americano, può restare indifferente alle ferite inferte al corpo nazionale? O è ora di confrontarsi con la speciosità del vero, con l'imperfezione umana, e con le conseguenze che genera, anche nel campo nell'intolleranza? L'idea di restare immutabili, di volare solo alla propria sublime altezza, col rischio, d'improvviso, di venire abbattuti, non è prerogativa dell'illusione? D'altro canto, l'America non è piena di musulmani? Come ci si rapporterà con essi se il caso di questa moschea si estremizzasse? “Il nostro diritto più importante è di credere in ciò che vogliamo” ha detto l'ebreo Bloomberg. “Tradiremmo i nostri valori e giocheremmo secondo le regole del nemico se facessimo altrimenti”. Perché un nemico c'è. Quello non è un'illusione.

    E' un formidabile mandato di fiducia quello che, attraverso il governo di New York, l'America può indirizzare all'islam: non si tratta di porgere l'altra guancia o di offendere i morti, ma di dare seguito alla dichiarazione di buone intenzioni. E' un passo notevole, nella direzione di una condiscendenza che difficilmente convincerà la maggioranza degli americani. La richiesta è impegnativa, la ferita non è rimarginata e c'è da scommettere che la costruzione della moschea procederà spedita, surclassando nei tempi quel colosso di cartapesta che è il One World Trade Center, il mausoleo della vita e della morte che non riesce a rinascere dalle ceneri delle Torri, se è vero che due miliardi di spesa e nove anni di discussioni sono riusciti a malapena a riempire l'impressionante cratere. Ground Zero resta un'idea e un prodotto delle emozioni.

    La moschea invece nascerà e il suo impatto è tutto da valutare – nei cittadini e nell'uso che se ne faranno i media. Sostenerla o negarla diventerà questione di partigianeria politica, di sfida sul concetto di americanità. E un altro dato s'aggiunge al quadro: due sondaggi della settimana scorsa hanno ottenuto identico esito. Circa il 53 per cento dei newyorkesi si dichiara contrario alla costruzione della moschea in quel posto e solo il 34 per cento favorevole. Confrontando i numeri con quelli di approvazione dell'operato di Bloomberg, i conti non tornano. Sarà sintomo di oscurantismo o d'intolleranza nervosa, ma è difficile ignorare queste cifre. Andrebbero approfondite. Se i newyorkesi dovessero continuare a esprimersi in questa direzione, si richiederebbe una riflessione ulteriore. Di questa scelta, di questo responso, di questa ridefinizione del proprio canone, la città-stato per antonomasia – e l'America intera – dovrebbe farsi carico e attraverso essa riconfigurarsi di fronte al mondo. E di fronte a se stessa, davanti allo specchio.