In morte di un Picconatore

Stefano Di Michele

A volte era anche dispettoso, Francesco Cossiga. Nel suo vagare affannoso eppure divertito tra codici atlantici e codice barbaricino, nella tormenta di parole con cui inseguiva e incantava e irritava, ecco di colpo l'impuntatura, lo scarto laterale, il piccolo castigo. Come quella volta che dal Quirinale spedì una lunghissima lettera all'Unità dove a un certo punto compariva, in caratteri cirillici, la parola “disinformatia”.

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    A volte era anche dispettoso, Francesco Cossiga. Nel suo vagare affannoso eppure divertito tra codici atlantici e codice barbaricino, nella tormenta di parole con cui inseguiva e incantava e irritava, ecco di colpo l'impuntatura, lo scarto laterale, il piccolo castigo. Come quella volta che dal Quirinale – e il Quirinale era già un Palazzo nella tempesta, sorta di mulino donchisciottesco a vederlo da fuori – spedì una lunghissima lettera all'Unità dove a un certo punto compariva, in caratteri cirillici, la parola “disinformatia”, e il capo dello stato pretendeva che con identici caratteri cirillici fosse stampata il giorno dopo. Si diventò matti, quella notte, a cercare una macchina da scrivere con i caratteri russi – manco all'Unità ce n'era più una, e i meglio compagni con pratica in terra sovietica venivano allertati casa per casa, avessero loro casomai conservato il prezioso manufatto.

    Cossiga fu prima silente e tormentato – le stimmate del delitto Moro nei capelli di colpo bianchi e sulla sua pelle coperta di macchie, come una mappa dolente – poi ciarliero e tormentato, sfottente e tormentato. Tormentato sempre: anche quando rideva e ricordava, stupiva e assordava e pignolo precisava. I democristiani, che sapevano valutare delle persone sempre limiti e altezze, così che tanto i primi quanto le seconde andassero comunque a propria maggior gloria, con Cossiga sbagliarono ogni misura, nel loro universo di dismisure – fino a dargli del matto, corpo estraneo al corpo ormai in disfacimento del glorioso scudocrociato. Dal “sangue di Moro” al pugnale di Gladio, che Cossiga portava affondato nel cuore e disegnato sulle cravatte, pace più non ebbe e pace più non diede – del suo tormento fece gioco e insieme monito agli antichi amici che si affrettavano a certificarne la pazzia: tutto è finito, siete voi i pazzi, voi i ciechi che non vedete! Così che un capocorrente democristiano osservandolo dopo l'abbandono del Quirinale – ancor giovane e instancabilmente vociante – diede di gomito al cronista e con malizioso e feroce sorriso sussurrò: “Il problema dei senatori a vita è che dovrebbero essere a vita breve…”.

    Il fondo oscuro che molti vedevano in Cossiga – le passioni militari, la conoscenza dei servizi, i cento misteri che ognuno sospettava conservasse – era forse solo il riflesso dello stesso potere che lo accusava e gli soffiava nelle orecchie e gli malignava dietro. La sua straordinaria scalata a tutte le più importanti cariche della Repubblica – quasi sempre perché laterale a tutti, sempre con la convinzione che mai avrebbe arrecato fastidi né avanzato pretese: il suo irrompere nella forma e devastarla, lo scatenamento dentro il recinto del rito consolidato, fu il feroce inatteso contrappasso a un potere che era stato immobile ed era finito immobilizzato. Nessuno prima fu come lui, nessuno in seguito si è potuto permettere di esserlo, nella vertigine che si prova scrutando il crinale tra una fine e un inizio – e la “follia” berlusconiana, partorita dall'agonia del mondo su cui Cossiga mise il sigillo ultimo, nemmeno lontanamente gli somiglia.

    A volte era molto simpatico, Cossiga. Quando si arrampicava sull'ultimo scaffale alla ricerca di antichi testi leninisti, “casomai sorgesse una contesa tra di noi”, o ricordava del vecchio pittore che da ragazzo quasi lo convinceva a farsi comunista, “perché ha un suo fascino, il comunismo”, e s'infervorava per la sorte del partito “di mio cugino Enrico”, e dimmi!, “come è finito in mano a quei cretini lì?” – e allora l'unica ombra di soggezione che pareva d'intravedere nel suo sguardo, per quel parente così diverso e così scrutato, che pure mai politicamente lo salvò – “con i parenti si mangia l'agnello, non si fa politica”, da sardo a sardo, gli disse Enrico un giorno – e Cossiga pareva capire.

    Tutta un'esistenza dentro i palazzi del potere fino forse a sentirsene straniero, come secondo Kavafis succede alla vita – “stucchevole estranea”, appunto – se sprecata in troppe parole e nel “gioco balordo” degli incontri e degli inviti. E questo Cossiga ha evitato con l'ultima sua mossa laterale, l'ultimo suo scompiglio: le quattro lettere sigillate alle massime cariche istituzionali (omaggio a ciò che fu) e il desiderio di funerali privati nella sua terra, tra i suoi cari (ritorno a ciò che sarà). Custodiva ombre e fantasmi e memoria di anni invasi da ombre e fantasmi e sangue. Il suo uscire di scena poche settimane dopo la moglie di Moro (il suo maestro che non fu in grado di salvare, il peccato che non ha mai finito di scontare) è il quasi perfetto colpo di teatro di un uomo che conobbe certo onori, ma pure grandi dolori, abissali malinconie e molti misteri – e un po' mistero divenne infine lui stesso.

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