Ma (se potete) evitate queste pose attruppate da satrapie orientali

Stefano Di Michele

I matrimoni, come i battesimi, come i compleanni, nascondono sempre qualche rischio esistenziale e diversi rischi estetici. Le foto, tanto per cominciare. Quando ci si mette in posa, metà del danno è fatto. Se poi a farlo è un politico, il danno è quasi completo: già patisce l'afflizione di diversi doveri, aggiungerne altri per libera scelta risulta quasi incomprensibile.

    I matrimoni, come i battesimi, come i compleanni, nascondono sempre qualche rischio esistenziale e diversi rischi estetici. Le foto, tanto per cominciare. Quando ci si mette in posa, metà del danno è fatto. Se poi a farlo è un politico, il danno è quasi completo: già patisce l'afflizione di diversi doveri, aggiungerne altri per libera scelta risulta quasi incomprensibile. La foto di famiglia pubblicata da Oggi – che con grande saggezza (pur dopo la leggerezza di averla permessa) tanto i Tulliani quanto il Fini avevano chiesto di non pubblicare – è da questo punto di vista emblematica. Sei adulti, più due deliziose bimbe – le uniche, per inciso, senza quell'aria attonita che sempre traspare dalle persone in posa: un tripudio di troppi bracciali, troppe cravatte, troppi sorrisi, troppe giacche abbottonate.

    E il contesto, ecco, il contesto: una foto vecchia già per annate di Oggi degli anni Cinquanta, quelli afflitti da folle di nobilume decadente e insolente. Non dovrebbe mai mettersi in posa, un politico. Non cedere alla vanità – né forse a certi doveri parentali. Queste foto di famiglie attruppate, dai sorrisi tirati e dalle mani composte, evocano sempre un po' di satrapia orientale (che nulla, s'intende, ha da spartire con il borghese accasamento finiano nella zona di Val Cannuta), e infatti abbondano nell'iconografia, per dire, di uno Scià di Persia o di un Saddam Hussein, come nell'esibizione di certi principeschi sgravamenti – di cui pure Oggi è stato, in passato, dispensatore generoso. Ma non è, si diceva, solo la folla umana, ma pure il contesto ambientale. Tende senape che virano verso il color oro, un tondo di maniera su un cavalletto, sedie rivestite di un velluto che richiama il colore delle pareti, che approda nuovamente sul vistoso tendaggio.

    Uno stile che – moltiplicato per cento, come nel carattere e nel censo – sommerge a volte anche Berlusconi, quando intigna sulla convinzione che per apparire statista si deve piazzare tende oro alle pareti, statue romane a lato, mobilia Luigi XIV davanti: l'impressione della scenografia si respira fortissima. E un politico dentro una scenografia – e qui in parte l'eccezione berlusconiana, che essendo spettacolo prima che autorità va per strade sue – procura sempre uno strano disagio, e forse un po' di disagio, intelligentemente, lo avverte. E infatti a ben vedere, l'espressione di Fini, nell'ordinata esposizione famigliare, è quella che ha almeno un'ombra di perplessità, dove lo sforzo appare maggiore. Il guaio, nell'ammasso indistinto di immagini, è la confusione tra la messa in scena e il luogo dell'esercizio del potere. Sul suo scranno a Montecitorio, Fini mai è dentro una scenografia. Come non lo sarebbe il Cav. nel suo studio di Palazzo Chigi, se la finisse di impiantare luoghi decisionali qua a là, come cactus a Villa Certosa. Non lo è Napolitano al Quirinale – lo sarebbe con corazziere e tricolore sulla motonave per Stromboli. Esteticamente parlando, la foto su Oggi non appare mediaticamente felice (a parte il lieto evento: un battesimo). Fini, tanto accorto da non salutare più col braccio disteso, così da non essere scambiato nemmeno in un fermo immagine per ciò che non è, e pur tanto ostinato da insistere sulle cravatte rosa, ha forse commesso il peccato in questa fase per lui più inatteso: quello banale di carenza di futurismo.