Ha usato il monopolio della forza, è stato feroce ma dialogante e signorile
Il mio Cossiga, barbaro per bene
La prima volta che l'incontrai fu in un ristorante, le masse truculente non avevano ancora sfregiato il suo nome con la k e la doppia s. Io non lo avevo visto, lui mi bussò alle spalle, “lei è persona ben nota ai miei servizi”, io rimasi impacciato ed ebbi come un trasalimento. L'ultima, poco tempo fa, in uno studio televisivo. Cammina con passo lento al braccio della figlia e della guardia del corpo, mi piazzo davanti e lo marco stretto.
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La prima volta che l'incontrai fu in un ristorante, le masse truculente non avevano ancora sfregiato il suo nome con la k e la doppia s. Io non lo avevo visto, lui mi bussò alle spalle, “lei è persona ben nota ai miei servizi”, io rimasi impacciato ed ebbi come un trasalimento. L'ultima, poco tempo fa, in uno studio televisivo. Cammina con passo lento al braccio della figlia e della guardia del corpo, mi piazzo davanti e lo marco stretto, sento d'impulso di doverlo proteggere da telecamere e occhi volgari, “signor presidente ha la patta slacciata”; “oh mio carissimo amico, che vuole che sia, sono aspetti inessenziali della condizione umana”.
Questo era il “mio” Cossiga e non mi sentirei di dire né che fosse un buono, sempre sinonimo di fesso nel metalinguaggio della politica italiana, né che parlasse tanto per parlare, né che fosse un vecchio pazzo che ormai usciva in mutande e le brave persone facevano finta di non vedere. Non fosse stato imbevuto di utopia e democrazia, non fosse stato uno di buona famiglia, pazzo di teologia e cultore del cardinale Newman, fosse rimasto alla rugosa essenzialità del codice barbaricino, agli uomini vili che lo hanno pugnalato alle spalle, alle candide vergini che hanno sbraitato per la sua Gladio, ai magistrati politicizzati di ogni età e di ogni procura, ai tanti che ieri lo volevano trascinare davanti l'Alta corte con l'accusa di alto tradimento e oggi ipocritamente lo piangono, a così tanti cialtroni e felloni avrebbe piantato volentieri la lama di damasco della pattada e spinto fino a che anche il manico in corno di muflone non toccasse la carne. Perché era sardo. E barbaro, splendidamente barbaro, nel senso di chi si sforza di portare nuova civiltà a una società, a un sistema morente. Se era nonno, era di quelli affabulatori, che ti ammaliano per la profonda conoscenza della storia e ti stupiscono per l'insospettata attrazione per le minoranze del mondo, la stessa che gli faceva dire senza mezzi termini che il premier spagnolo Aznar era un cretino e uno stoccafisso per come trattava la questione basca e quella catalana.
Il “mio” Cossiga non era un santo, ma un “carognone” che quando ha avuto in mano il monopolio legittimo della forza l'ha usato senza risparmio, tra leggi speciali, carri armati schierati e pattuglie speciali antisommossa. Un cattivo molto per bene come solo può esserlo un barbaro “bien cultivé”. Dotto di grandi e piccole cose, usando una lingua forbita e sempre ironica, e se fu folle, shakesperianamente folle, lo fu perché diceva sempre con coraggio quello che pensava, sapendosi perfettamente impotente perché sfavorito dai rapporti di forza, curioso di tutto e di tutti fino ad accettare anche il corpo dei reietti, perché della politica e del mondo aveva un'idea solida e strutturata, uno che disprezzava l'apparire, la mondanità, l'ignavia. Ed è il solo che nel paese viscoso si è preso le sue responsabilità, fino a quella, terribile e tragica da cui mai si rimise completamente, di non essere riuscito a proteggere e a salvare Aldo Moro.
Un gigante nel paese dei nani perché disse apertamente e in anni lontani che il brigatismo fu un fenomeno sovversivo squisitamente endogeno e che per finirla con gli anni di piombo occorreva un'amnistia. E i nani lo irridevano e lo schernivano, gli stessi che un quarto di secolo dopo ascoltarono in lacrime, in Parlamento, le parole accorate con cui Giovanni Paolo II li invitava a mostrarsi generosamente cristiani verso i detenuti, gli ultimi degli ultimi, e quelli che piangono e tramestano per mesi, per anni fino a partorire un indulto miserabile da cui appena approvato ognuno si ingegnò a prendere le distanze. Vili che il “mio” Cossiga, altro che un colpo di pattada.
Si vide quanto poco fosse stato compreso dai suoi stessi compagni di partito che lo mandarono al Quirinale perché sembrava innocuo, di seconda fascia. Per questo suo essere eguale e diverso, irrimediabilmente unico, Francesco Cossiga è stato il presidente dei fuorusciti e degli stranieri in patria, il solo cui riconoscere un principio di autorità all'occorrenza feroce ma dialogante e aperto una volta allontanato il pericolo. Sempre flessibile e per questo intelligente. Insieme a Giovanni Leone, altro galantuomo ferito a morte dai professionisti del linciaggio, ha creduto nell'importanza della Costituzione materiale e nella sua primazia su quella formale, esempio raro dell'intelligenza democristiana dello stato delle cose.
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