Perché l'ondata di moratorie è peggio della marea nera di Bp

Carlo Stagnaro

Ora che “quel maledetto buco” è stato tappato – come disse Barack Obama quando il petrolio continuava a sgorgare nel Golfo del Messico – il presidente americano si trova impicciato in un cul de sac. La moratoria sulle estrazioni offshore, segno tangibile della volontà di Obama di “fare qualcosa”, sta causando più problemi del previsto.

    Ora che “quel maledetto buco” è stato tappato – come disse Barack Obama quando il petrolio continuava a sgorgare nel Golfo del Messico – il presidente americano si trova impicciato in un cul de sac. La moratoria sulle estrazioni offshore, segno tangibile della volontà di Obama di “fare qualcosa”, sta causando più problemi del previsto. Dichiarata il 28 maggio, è stata rigettata da una Corte federale il 22 giugno in quanto “arbitrary and capricious”, sentenza confermata in Appello l'8 luglio. Il 12 luglio l'Amministrazione ha adottato una seconda iniziativa che, come spiega il segretario all'Interno, Ken Salazar, non colpisce la profondità delle operazioni, ma “le configurazioni e le tecnologie di perforazione”. Intanto, la Casa Bianca chiede regole più severe per i permessi di esplorazione ed estrazione, al punto che “la moratoria continuerà in modo non ufficiale” dopo la scadenza del 30 novembre, ha detto Bruce H. Vincent, capo della Independent Petroleum Association of America che raccoglie i piccoli e medi produttori indipendenti.

    In realtà, l'inasprimento regolatorio è un modo per superare gli ostacoli legali della moratoria: Michael Bromwich, responsabile dell'agenzia che rilascia i permessi, dice che così si potrà anticipare la fine del bando. Insomma: un pasticcio. Anche perché Obama viene tirato per la giacchetta in tutte le direzioni. L'industria petrolifera è pronta a combattere l'iper regolamentazione (la dichiarazione di guerra, sul Financial Times di ieri). Il movimento ambientalista – una parte importante della constituency del presidente – accusa le misure prese di essere fin troppo morbide, e nega che gran parte del petrolio versato in mare sia stato recuperato o riassorbito dall'ambiente (come dichiarato da Bp e dal governo). Lo scontro è ancora più feroce sul piano politico: in California, per la democratica Barbara Boxer, l'apertura di nuove piattaforme metterebbe a repentaglio 400 mila posti nell'economia costiera (tra turismo, pesca, etc.). Nel Mississippi, il governatore repubblicano, Haley Barbour, la mette così: “La perdita è stata una cosa terribile, ma la moratoria è una cosa terribile non solo per la regione, ma per l'America”.

    Ma le grane per Obama sono soprattutto altre. Proprio quando il gradimento per la gestione del disastro Bp migliora (secondo l'ultima rilevazione Ap, è al 50 per cento contro il 45 per cento di giugno), gli americani perdono interesse per una battaglia che (nelle intenzioni) doveva essere tanto di immagine quanto di sostanza. Il “blowout” è un “tema importante” per il 60 per cento del campione, 27 punti meno di due mesi fa. I favorevoli all'offshore drilling (48 per cento) ormai superano ampiamente i nemici delle trivelle (in calo dal 41 al 36 per cento). Dietro questo cambiamento non c'è, probabilmente, solo la diffusa euforia da scampato pericolo, ma anche la consapevolezza delle conseguenze economiche di un intervento a gamba tesa. Così la reazione all'incidente della Deepwater Horizon si mischia al confronto più antico sull'utilità delle perforazioni sottomarine. Per la Union of Concerned Scientists, “sfruttare le coste atlantiche e del Golfo finora chiuse farebbe scendere i prezzi della benzina di appena 2 centesimi al gallone tra vent'anni, fornendo una quantità di petrolio pari a meno di due mesi di consumo per i prossimi due decenni”.

    Invece secondo Joseph Mason,
    economista alla Louisiana State University, la moratoria, che “congela” le attività dei 33 pozzi esplorativi attualmente esistenti e sospende le nuove autorizzazioni, in soli sei mesi distruggerà 2,7 miliardi di dollari (di cui 2,1 negli stati costieri nel Golfo del Messico), e fino a 12 mila posti di lavoro a livello nazionale (8 mila negli stati del Golfo).
    Alla luce di questi dati, si capisce l'opposizione nelle zone più colpite, che temono di vedersi penalizzate pure sul fronte economico. Intanto l'idea dei bandi fa proseliti all'estero. Per il Commissario europeo all'Energia, il tedesco Günther Oettinger, “una moratoria sulle nuove estrazioni sarebbe una buona idea”, e – nel suo piccolo – perfino l'Italia si è mossa: l'interessamento della Bp a un potenziale giacimento al largo delle coste libiche ha convinto il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, a chiedere che il Mediterraneo sia reso off limits. Ma forse il mare     in questione non è più abbastanza nostrum da renderci rilevanti, come testimonia l'irritazione di Tripoli.

    La variegata coalizione “no triv.”, tuttavia, deve fare i conti con le dimensioni del problema. Ogni giorno vengono cavati dai fondali marini 24 milioni di barili di greggio, circa un terzo del totale. Sono i barili “marginali”, aggiunti anno dopo anno alla produzione per compensare il declino dei vecchi giacimenti e soddisfare la domanda. Le terre emerse sono meno promettenti degli oceani, o perché sono già mature (come in Nordamerica) oppure per le ritrosie politiche nei paesi produttori (come nelle nazioni Opec). Proprio per l'immensità delle risorse, i petrolieri si sono avventurati in acque sempre più profonde con tecnologie sempre più sofisticate: se le prime piattaforme di cui si abbia notizia pescavano pochi metri sotto il Grand Lake St. Maris nell'Ohio (era il 1891), oggi si scende per migliaia di metri – e poi ancora migliaia sotto il fondale fino al “reservoir”. La Deepwater Horizon è solo una delle circa 600 piattaforme attualmente in funzione, ed è irrealistico pensare che l'incidente sia generalizzabile. Un conto è cercare di migliorare la performance e la sicurezza delle attività; altra cosa è buttarla in politica e spiccare una corsa verso il peggio.