I delfini parricidi
In questi ultimi tempi Gianfranco Fini si è regalato un destino. Ancora non è chiaro di cosa si tratti ma intanto l'eterno delfino che imperscrutabile ha attraversato tanta politica italiana è emerso provocando un maremoto. Chi è Gianfranco Fini? Unrat, il professore bacchettone che perde la testa per una ragazza e finisce a fare chicchirichì all'Angelo Azzurro? Forse, anche, non solo, non per tutti. Tanti vedono in lui Jaffier, l'eroe tragico di “Venise sauvée”, il capolavoro di Simone Weil.
In questi ultimi tempi Gianfranco Fini si è regalato un destino. Ancora non è chiaro di cosa si tratti ma intanto l'eterno delfino che imperscrutabile ha attraversato tanta politica italiana è emerso provocando un maremoto. Chi è Gianfranco Fini? Unrat, il professore bacchettone che perde la testa per una ragazza e finisce a fare chicchirichì all'Angelo Azzurro? Forse, anche, non solo, non per tutti. Tanti vedono in lui Jaffier, l'eroe tragico di “Venise sauvée”, il capolavoro di Simone Weil. Illuminato dalla bellezza della città Jaffier tradisce la banda di mercenari al soldo di Venezia, pronti a loro volta a tradire la Repubblica, a conquistarla, a saccheggiarla, a distruggerla. Dovrebbe condurli alla vittoria invece li denuncia, condannandoli alla tortura e alla morte; solitario e sconvolto – erano suoi amici, uno perfino lo amava – egli stesso va incontro a un tragico epilogo. Anche qui una ragazza, la leggiadra Violetta. E' la sua grazia a spingere Jaffier a ripensare la propria vita, a metterla in discussione; neppure gli occorre una notte da Innominato per decidersi, gli basta aprire gli occhi e vedere, vedere Venezia in tutto il suo splendore. Anche Fini a un certo punto delle sue sottomarine peregrinazioni deve avere visto qualcosa, sicuramente si è imbattuto in una sirena. Dall'incontro con Elisabetta Tulliani Fini ha accelerato la propria trasformazione, finché ha scelto di schierarsi per quel Sessantotto che aveva con violenza combattuto e che ora abbraccia con la stessa determinazione con cui tanti ex sessantottini sono approdati all'altra parte della barricata. Anime inquiete tutte, spinte dal senso di colpa più che da un reale progetto, pungolate dai demoni almeno quanto dalle angeliche visioni.
Comunque sia, via il vecchio, via il Duce, l'antisemitismo, il razzismo, via la moglie, gli amici… e infine l'ultimo residuo, il più insopportabile, l'immacolata missina concezione, quella mitologia di fascista purezza che la contessa Colleoni gli ha lasciato in eredità. Un'eredità imbarazzante, un ricatto morale da liquidare con fastidio, da gettare nella pattumiera del tempo, roba buona per il cognato ferrarista. E qui l'inconscio ci mette lo zampino. Per quanto nere e complicate, le nostre trame sono solo patetici volontarismi, continuamente derisi dai giochi che il deus absconditus allestisce. Scrollarsi di dosso in modo brutale l'eredità missina è anche un'occasione, il costoso biglietto d'ingresso pagato da Fini per entrare nel mondo dei comuni mortali, dei peccatori, lui, per tanti anni il segretario dei segreti di Pulcinella, l'algido custode del sacro nulla. L'accusa all'altro è sempre un'autoaccusa: denunciando i peccati del Cavaliere è se stesso che Fini ha additato al mondo come peccatore. Si era scordato di Montecarlo solo per poterlo esibire nel modo più plateale. Per essere degno di lanciare pietre, Fini la prima pietra ha dovuto gettarsela sui propri piedi. Che tutti sappiano. Solo chi pecca può redimersi, e pertanto redimere: è all'insegnamento di Loyola che Gianfranco Fini è approdato al termine del suo avventuroso cammino.
Renaud è il genio malefico del dramma di Simone Weil, è il sognatore che vuole asservire tutti al proprio sogno e che in ogni momento aggiorna e verifica nella propria testa la mappa del potere assoluto. Stima Jaffier ma lo sente lontano. Mai lo rimprovererebbe per avere violentato una ragazza; può stuprarsene mille di Violette e poi gettarle nella Giudecca se vuole. L'immoralità va benissimo a Renaud, quel che non perdona è la moralità; lo turba l'idea che Jaffier possa essere stanco di saccheggiare, puzza d'infiltrato. E' offensivo che non faccia il porco come tutti i suoi compagni; li sta forse guardando con disgusto? Il Cavaliere è Renaud? Difficile immaginarlo in quei panni. Il Cavaliere non ha bisogno di pensare al potere, di sforzarsi, d'inseguirlo; è il potere che lo rincorre e gli si appiccica addosso, tanto gli è consustanziale. Inoltre il Cav. non è uso depredare e annegare le ragazze ma riempirle di ori. Sia quel che sia, allucinato, accorto o entrambi, ché nella logica sempre v'è follia e la follia è un eccesso di logica, Fini si è sottratto al rito d'iniziazione, si è tolto dal branco. Siede in una Camera lontana dal mondo, che vorrebbe ancora più pulita e asettica; quando gli si è chiesto di fare campagna si è defilato; è stato con una ragazza ma non l'ha liquidata quando è rimasta incinta, per quel dono l'ha amata. Al pari di Jaffier Fini tradisce, non c'è dubbio, ma chi tradisce e per cosa? Tradisce una banda di saccheggiatori senza scrupoli che vogliono distruggere Venezia, ma anche gente capace d'amicizia pur nella ribalderia. Sempre che possa esserci vera amicizia in una banda criminale. Ma se c'è, se c'è amicizia, allora forse non è una banda, forse è una grande impresa che l'altrui invidia deturpa. E i superbi veneziani sono degni cittadini o frigidi ipocriti, visto che poi ricompenseranno Jaffier con trenta denari, derisione e morte? Infine, è davvero Gianfranco Fini convertito dalla bellezza e dall'amore o anch'egli punta alla conquista della Repubblica?
Prendiamo un attimo per buona quest'ultima ipotesi. Fini si presenta ai cittadini portando in dote il salvifico tradimento, ma soprattutto il fatto d'essere lui più veneziano dei veneziani, ancor più di costoro ligio alle regole della città. Non è Jaffier ma nemmeno Jago, è Otello. Se i veneziani sono democratici per nascita lui lo è per merito: s'è conquistato tale gloria con un lungo cursus honorum, lui che veniva dalla tenebra, il Moro, la camicia nera. Chi più di un delfino che uccide il tiranno è degno di divenire il doge della città che salva dalla distruzione? Applausi a scena aperta, ma il Cavaliere come reagisce a questo tradimento? A lungo ha esitato, in preda all'unico dubbio che può scuoterlo: costui fa parte di me, è della mia stessa natura, o è un corpo estraneo vale a dire ostile? E' ostile! tutti i suoi consiglieri gli hanno urlato, ma lui non poteva crederci. Ancora gli sembra impossibile, si arma di buona volontà, vuole perdonare. In fondo, se Fini tradisse per hybris, per farsi capo di quella Repubblica che il Cavaliere pensa spettargli, Berlusconi s'arrabbierebbe ma capirebbe e fin apprezzerebbe: la concorrenza gli piace, la battaglia lo eccita. In quest'ottica Fini non è un traditore, fa sempre parte della cricca, il più saggio di tutti, un degnissimo successore. Quello che a Berlusconi risulta insostenibile è il pensiero che Fini lo tradisca per schifo: lui, il re, il suo benefattore, gli fa schifo, gli fa schifo quel che fa, gli fa schifo la sua corte.
A Fini fa schifo persino… il vecchio Fini, quello che per tanti anni ha sopportato per calcolo, paura e, forse, per qualcosa di ancora più inammissibile, per amore. Questo no, questo il Cav. non può tollerarlo, non può sopportare d'essere degradato da idolo a qualcosa da spazzare via come feccia. Solo il momento in cui in cuor suo ha raggiunto questa orribile certezza, quando ha percepito a pelle il disgusto del suo delfino, il Cavaliere ha dovuto a malincuore accantonare la sua proverbiale mitezza e generosità e ha messo alle calcagna del reprobo un sicario dalla lama affilata. Ha atteso troppo, lo rimproverano i suoi fedeli, ha corso un grave rischio, ancora lo sta correndo. Ma il Cavaliere è un inguaribile romantico, pensa che gli uomini siano tutti buoni, anche i più cattivi, soprattutto quelli. Che groviglio il cuore umano, non solo è un cacciatore solitario ma sbaglia sempre mira. Difficile seguirne la traiettoria, si possono solo azzardare ipotesi, ma l'enigma resta, cresce, s'arricchisce e delira. Meglio così, privi di mistero ci faremmo orrore; esenti da follia non potremmo che ucciderci l'un l'altro tanto per passare il tempo. Ben venga la tenebra ma anche, a un certo punto, un po' di delicatezza. Nella terribile partita a poker ingaggiata da Fini con l'irriducibile Feltri la posta si sta alzando di ora in ora, finché si dovranno vedere le carte, tutte le carte, e uno dei due sarà sommerso da oscene risate di scherno. Sarà quello il momento in cui dare il benvenuto alla pietas, onde preservare colui che, in caso di disfatta, è il contendente a rischio di vita, poiché vertiginosa sarà la caduta. Paradossalmente proprio Feltri – il cui inconscio è più compassionevole e burlone di quel che mostrano i suoi denti – regalerà a Fini una via d'uscita. Come nel caso Boffo il direttore del Giornale esagererà, commetterà qualche errore dietro al quale lo sfidato troverà riparo per attutire i colpi.
Intanto s'invoca un governo tecnico, o l'elettorale union sacrée. Mi piacerebbe assistere a un match “Cavaliere contro il resto del mondo”, ci costerebbe qualche quattrino ma credo che ne possa valere la pena, uno spettacolo esaltante in cui ciascun gruppo della sinistra avrà modo di dare il peggio di sé. La deificazione del Cavaliere – solo i suoi nemici inconsci la chiamano demonizzazione – troverà il suo compimento. Nell'attesa i futuristi stanno davvero facendo un gran bel casino nella migliore tradizione marinettiana. Le ville brianzole e sarde, le società offshore, i commercialisti inglesi… se a suscitare questi spettri è la sinistra, il Cavaliere nemmeno più ci fa caso, non vede una minaccia ma un segno d'impotenza. Ma se a dire queste stesse cose è un gruppetto di giovanotti scalmanati la gente si eccita, e per fare il paio con la fotografatissima procura di Montecarlo ora vuole vedere il rogito di Arcore e mettere le mani sui tesori caraibici. Quattro gatti spelacchiati dalle incertissime fortune impensieriscono il Cavaliere pieno di macchie ma notoriamente senza paura? Fanno una certa impressione non per la novità delle argomentazioni, ma per la giovanile irruenza, è futurismo d'assalto: Zang-Tumb-Tumb e Adrianopoli va a pezzi. Per Gabriele D'Annunzio Filippo Tommaso Marinetti era “un cretino fosforescente”. Un insulto ma anche una medaglia.
Il fosforo attizza. Al buon Bersani neppure i suoi seguaci danno retta mentre per l'arzillo Bocchino tanti sono disposti a combattere. Qualsiasi cosa Bersani dica nessuno gli crede; peggio, nessuno ha voglia di credergli. Se Bersani dice che il verde è verde, per scaramanzia la gente pensa di no. Come si è arrivati a questo punto? Un tempo Togliatti diceva bugie grandi come la Casa Russia, i suoi le bevevano soddisfatti e gli avversari lo guardavano con rispettoso orrore. Togliatti aveva un fine, un interesse, così come Berlusconi. L'interesse piace, suscita transfert, fa sesso. Il popolo ama chi mente con passione e con losca determinazione, vedi l'innocentismo sfrenato nei confronti d'imputati palesemente colpevoli, da Raul Ghiani ad Annamaria Franzoni. La gente è disposta a seguire un assassino fino in capo al mondo ma nemmeno si degna di prendere un caffè con quel “pigliainculo” che per Sciascia sta solo un gradino sopra il “quaquaraquà”. Da decenni la sinistra non dice più menzogne, ma il modo in cui non le dice suona menzognero, una menzogna ambientale. Nel timore di mentire l'uomo di sinistra dice la verità in modo così reticente che gli esce dalla bocca tutta storta, esausta. Piuttosto che una verità così male-detta, meglio una benedetta menzogna! pensa la gente, esterrefatta da un simile spettacolo. La sinistra si vergogna di quel che dice e, altruista, fa in modo di dirlo con tono così confuso che all'altro non arrivi, in modo che possa nuocere il meno possibile alle sue orecchie. Promulgherà poi leggi assolutamente inapplicabili, sicché nessuno se ne accorga. E' la menzogna di chi non ha alcuna autorità, di chi si sente privo di voce e per coprire questa mancanza non dice il falso ma si rifugia nel falsetto. Tutto diventa vaghissimo. Epifani e Bersani possono essere due bravissime persone, ma cosa facciano di mestiere resta ignoto. Uno dice d'essere sindacalista e l'altro segretario del Pd. Fanno gli interessi dei loro sottoposti? Non sembrerebbe, visti i risultati. Fanno il bene dell'Italia?
Neppure arrivano a lambirla. Nemmeno fanno il proprio utile, non sono ladri o approfittatori, semplicemente non sono. Avvolti in una fitta nebbia, brancolano. Più cercano d'essere rassicuranti sfoggiando un bel tono civile e moderato, più fanno paura: “Questi non ci portano da nessuna parte”, sospira la gente. Si divertono tra di loro con le primarie, una specie di preliminare erotico dal sapore incestuoso. Lì vincono sempre, come i bambini ai tirassegni dei lunapark. Passano il tempo a parlare male di Berlusconi ma si sente che il loro odio è platonico. “Liberiamoci di Berlusconi”, ha tuonato di recente Bersani, ma solo per gentilezza; e solo per gentilezza Bondi gli ha dato riscontro facendo la parte della grassona che salta sulla sedia alla vista del topino. Ben altrimenti si pongono gli scattanti futuristi: lì si avverte l'odio del parricida, l'odio più puro perché non legittimato da nulla se non dalla smania di punire il padre per tutto quello che ha dato. Quel che il padre dà all'allucinato parricida è marcio, veleno con cui cerca di assopirlo e ucciderlo, la fialetta di Otalgin dello zio Claudio di Danimarca. Niente spinge i futuristi alla ribellione, potrebbero vivere in eterno nel Paradiso terrestre del potere e delle prebende, al sicuro, con una bella carriera davanti a loro, ma è proprio quel che detestano.
Meglio cadere dalla padella di Berlusconi nella brace di Fini, meglio un beau geste, e tutti a morire nella Legione per una patacca piuttosto che vivacchiare in una disonorevole inedia. Invano Marcello Veneziani li rimbrotta invitandoli ad aprire gli occhi su Fini, a suo giudizio un'assoluta nullità. Meglio, meglio: le geste sera encore plus beau! Non tardare più / manchi solo tu / oh chéri ritorna a Montecarlo: e se Fini si rivelasse peggio che nulla, indegno, reo d'avere sacrificato se stesso e i propri compagni all'altare del cognato, il vitellone d'oro? Be', non è che i futuristi non ci abbiano pensato, e goduto: il cognato accasato e ferrarista sarebbe la dimostrazione che tutti i padri sono simili nel volere la morte del figlio, che riempiono d'ogni ben di Satana fino a farlo scoppiare. I futuristi odiano i padri, sghignazzano quando Bersani dice: “Vattene Cav. che subentro io”. Nessuna alternanza, replicano i futuristi, più nessun padre, sono tutti fasulli. Volete la pelle di Fini? Dateci quella del Cavaliere, certo non meno colpevole. Fini e Berlusconi nell'Ade a braccetto, un fantastico doppio parricidio per il sogno degli orfani, ribelli e soli, senza passato e senza presente, puro destino, delfini segnati dal delfico oracolo. Qualche fastidio lo danno e lo daranno: sono stati alla corte del Cavaliere, ne hanno studiato le mosse e ammirato la grinta, ne hanno lambito il mistero e hanno imparato a picchiare duro, senza fronzoli e preamboli. La gente percepisce che in loro c'è qualcosa di folle e d'inquietante, di demente e di fatale… di quel sacro che faceva inginocchiare lo starec Zosima ai piedi di Dmitri Karamazov, il figlio ribelle di cui intuiva il tragico destino. I futuristi contro il resto del mondo, Zang-Tumb-Tumb!
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