Il diavolo veste Google
In questo articolo si parla di Internet e di complotti, di Web e di dittatura, di simboli e di censura; si parla di un accordo sospetto, di una firma criticata, di un approccio scorretto e di un'azienda agitata; si parla di una mobilitazione improvvisa, di una rivolta imprevista e di una rivoluzione che incuriosisce i giornali meno della foto di una Ferrari innaffiata ma che probabilmente ci cambierà la vita più di una polemica di Fabio Granata.
In questo articolo si parla di Internet e di complotti, di Web e di dittatura, di simboli e di censura; si parla di un accordo sospetto, di una firma criticata, di un approccio scorretto e di un'azienda agitata; si parla di una mobilitazione improvvisa, di una rivolta imprevista e di una rivoluzione che incuriosisce i giornali meno della foto di una Ferrari innaffiata ma che probabilmente ci cambierà la vita più di una polemica di Fabio Granata. Perché basta sfogliare in questi giorni le prime pagine dei quotidiani americani per capire quello che dalle nostre parti in pochi sembrano aver compreso del tutto. Ovvero che nel giro di pochi mesi il Web a cui da anni ci siamo abituati rischia di fare un passo da gigante per lasciare il posto a una nuova creatura che sta cominciando a prendere vita giusto in queste ore. Ve ne sarete accorti: pochi giorni fa – segnatevi questa data che diventerà storica: 9 agosto 2010 – il motore di ricerca più famoso del mondo (Google) e l'azienda di telecomunicazioni più ricca degli Stati Uniti (Verizon) hanno presentato un documento congiunto con il quale hanno richiesto alle autorità di controllo americane la possibilità di avere carta bianca per creare una nuova forma di rete internettiana più rapida rispetto a quella esistente oggi e soprattutto molto più cara. Una rete in cui le società sognano di far viaggiare alcuni contenuti più velocemente rispetto ad altri e in cui le aziende interessate a farne parte avrebbero in sostanza la possibilità di offrire servizi capaci di spostarsi nel nuovo Web all'interno di una corsia preferenziale. Una corsia percorribile però solo rispettando una piccola clausola: prima, signori, bisogna pagare.
Per giorni e giorni Google e Verizon hanno spiegato come questo passaggio sia fondamentale per poter migliorare le performance della rete e per sbloccare un nuovo flusso di investimenti capace di arricchire maggiormente il mondo del Web; ammettendo però di fatto che una delle conseguenze di questo processo sarebbe la nascita di due reti ognuna delle quali provviste di velocità differenti: la prima resterebbe quella attuale, come la conosciamo, la seconda costituirebbe invece il Web del futuro. E un paragone utile per comprendere la portata rivoluzionaria della richiesta fatta da Google e Verizon al legislatore è certamente la metafora della televisione. Con un Web a due velocità si verrebbe infatti a creare un sistema simile a quello costituito dalla tv pubblica e da quella via cavo: in quella via cavo (a pagamento) si svilupperebbero i servizi più innovativi; in quella tradizionale (non a pagamento) si svilupperebbe invece tutto il resto.
Non l'avessero mai fatto: poche ore dopo la pubblicazione del paper appena descritto gli osservatori di mezzo mondo hanno accusato le due aziende di voler fare a pezzi quel delicato principio della rete – la net neutrality – che prevede l'accesso a qualsiasi tipo di informazione sul Web uguale per tutti gli utenti. E se c'è qualcuno che ha patito più degli altri le violente polemiche registrate in queste ore – Ladri! Bugiardi! Traditori! Dittatori! – quel qualcuno, più che Verizon, è certamente Google. Tanto che i numerosi attacchi ricevuti dall'azienda guidata da Eric Schmidt, da Larry Page e da Sergey Brin hanno svelato un insospettabile fronte crescente di googlisti ribelli un tempo innamorati e ora, più semplicemente, un pochino incazzati.
L'istantanea migliore per raffigurare l'incalzante dissenso nei confronti di Google è stata scattata una settimana fa a Mountain View, quando attorno alla sede principale del motore di ricerca più famoso del mondo si sono presentati centinaia di manifestanti visibilmente contrariati. Erano pronti a esprimere il proprio dissenso lungo le strade della Silicon Valley per invitare i googlisti di tutto il mondo a limitare l'uso dei principali canali con cui Google raccoglie quattrini (Google Chrome, Google Search, Gmail, YouTube) e per consegnare ai dirigenti di Google una petizione firmata da 300 mila persone per protestare proprio contro il patto con il diavolo. Perché, sì, non è un mistero: è stato scritto da più opinionisti che la bozza di accordo con Verizon in fondo segna la fine dell'innocenza del motore di ricerca più amato del pianeta (resta da vedere se poi sia davvero così) e basta poco per immaginare che cosa significhi per un'azienda che aveva scelto come cuore delle proprie politiche di marketing il motto “Don't be evil” (Ehi, non essere cattivo!) ritrovarsi con l'accusa di aver stretto la mano al demonio. Ecco: ma che cosa sta succedendo a Google? Dove nascono le critiche al motore di ricerca? E quali sono le origini di questo improvviso dissenso planetario? La ragione principale delle violente critiche arrivate al triumvirato di Google in fondo è piuttosto semplice.
Negli ultimi anni, in molti hanno notato come il grande gioco di prestigio eseguito da Eric Schmidt – vero capoccia dell'azienda – sia stato quello di aver progressivamente confuso nell'immaginario collettivo degli internettiani la parola “Google” con la parola “democrazia”. A poco a poco Schmidt ha fatto della così detta libertà sul Web – e di tutte le conseguenti declinazioni applicabili sulla rete della parola “free” – lo scudo con cui difendersi da molti degli attacchi ricevuti dai nemici dell'azienda e non deve dunque sorprendere come ogni qual volta Google riceva un richiamo severo ora da un magistrato, ora da un avversario, ora da un giornalista si senta autorizzata a invocare presunti attacchi all'indipendenza, all'autonomia e alla libertà del Web. E lo spregiudicato messaggio scelto da Google per promuovere il proprio business alla fine è stato più o meno questo: noi siamo il Bene e vi garantiamo che ci batteremo fino alla morte per fare gli interessi dell'utente; i nostri nemici sono invece il Male e vi garantiamo che si batteranno fino alla morte per fare i loro zozzi interessi.
Così, i dirigenti di Google hanno tentato nel corso del tempo di offrirsi agli occhi dei propri utenti come se fossero promotori non tanto di un preciso modello industriale quanto, piuttosto, di un percorso trascendentale fatto apposta per rendere la vita di noi tutti più ricca di pace, d'amore, di fratellanza e di libertà: e se al posto di “Don't be evil” Schmidt avesse scelto in questi anni di lavorare in nome dell'“All you need is love” nessuno si sarebbe più di tanto scandalizzato. Alla fine di questo processo di lungo corso Google ha così ottenuto l'atteso risultato di essere sempre più identificato come il simbolo universale del politicamente corretto. Facile dunque intuire quanto possa essere stato traumatico per i googlisti più fanatici scoprire all'improvviso che Eric Schmidt non era madre Teresa di Calcutta e che l'evangelico Google non faceva beneficenza, ma molto più semplicemente faceva affari.
Il caso dell'accordo con Verizon, e del tentativo di Google di voler stravolgere un principio come quello della net neutrality che fino a qualche mese fa gli stessi dirigenti di Mountain View avevano difeso pubblicamente, ha poi avuto l'effetto di rendere evidente un altro aspetto contraddittorio della campagna buonista promossa dai ragazzacci di Gogòl, come direbbe il nostro Cav. La spregiudicata difesa della parola democrazia ha infatti messo Google nella condizione di trasformarsi progressivamente nello sponsor supremo di una visione sostanzialmente anarchica del Web; e ora che per la prima volta Google si è detta pronta a sconvolgere questa anarchia – anarchia fondata sulla confusione tra free e freedom e sul principio che chiunque voglia creare nuove regole per la rete sia sostanzialmente un mezzo birbante – quel mondo che l'aveva portato in trionfo fino a qualche giorno fa, eleggendo il motore di ricerca come simbolo di un non meglio identificato spirito di emancipazione globale, ora gli si sta rivoltando contro.
In realtà, le prime macchie comparse nelle vesti apparentemente immacolate indossate con abilità dai profeti di Google sono state notate già qualche anno fa, quando l'azienda californiana fu costretta a sporcarsi le mani scendendo a patti con i disinvolti funzionari economici del Partito comunista cinese. Era il 2006 e i googlisti di tutto il mondo si chiesero come diavolo fosse possibile che i prìncipi della democrazia potessero accettare la poco liberale richiesta cinese di censurare alcune inopportune pagine dell'archivio di Google. Fu da quel momento in poi che il “Don't be evil” negli anni festosamente sventolato dagli apostoli di Google iniziò a essere pronunciato con un po' più di cautela; e fu proprio da quel momento che iniziarono a girare sulla rete loschi documentari pronti a denunciare senza pietà i presunti abusi commessi da Google nella delicatissima sfera della privacy. Si iniziò per esempio a notare con malizia che se Google aveva davvero gli occhi spalancati sui nostri interessi, sulle nostre passioni, sulle nostre foto, sulle nostre e-mail, sui nostri documenti, suoi nostri amici e sui nostri spostamenti, bastava un nulla perché quella formidabile macchina di ricerca potesse trasformarsi in una minacciosa struttura di controllo sulla vita degli utenti. Nacquero proprio in quei mesi, inoltre, le prime spietate indagini dei garanti di mezzo mondo sulle presunte violazioni della privacy commesse dai giganti della rete; e nacquero anche da questo contesto le prime minacciose inchieste della stampa internazionale sui misteri dei giganti di Mountain View. L'ultima delle quali riguarda la performance effettiva del motore di ricerca californiano. Non c'è nessuno sprovveduto che si sogni di mettere in discussione la solidità di un'azienda che oggi si ritrova con un titolo che in Borsa vale il 467 per cento in più rispetto alla prima quotazione avvenuta giusto sei anni fa (era il 19 agosto del 2004 e un'azione di Google costava 85 dollari).
Ma allo stesso tempo qualcuno dovrebbe forse ricordare che l'attivismo un po' disordinato dei giganti di Mountain View – con la continua ricerca di un solido settore su cui poter puntare stabilmente nel futuro – è legato a un dato che molti sembrano ignorare ma che invece esiste. Parliamo della prima vera crisi di Google: una crisi registrata da una spietata statistica offerta da quelle tabelle agostane di Wall Street che hanno appena certificato una perdita del 20 per cento del valore delle azioni dell'azienda rispetto all'inizio dell'anno. Così male Google, da quando è nata, non era davvero mai andata. C'è chi dice – lo ha fatto il mensile americano Fortune dedicando al tema la copertina della rivista in edicola – che la ragione della caduta sarebbe relativa, da un lato, al modello di business non più innovativo portato avanti dal colosso di Mountain View, e dall'altro al fatto che negli ultimi nove anni sono state un po' troppe le idee fallimentari di Google (dal 2001 a oggi, l'azienda ha buttato nel cestino qualcosa come 18 progetti). Schmidt ha ammesso che ultimamente qualcosa è andato storto e si è difeso sostenendo che in fondo i flop di Google costituiscono il Dna dello sviluppo del motore di ricerca: “Noi – ha detto Schmidt – sperimentiamo sempre: e ricordate, noi celebriamo i nostri fallimenti. Perché questa è un'azienda dove va assolutamente bene provare qualcosa di molto duro, non raggiungere il successo e prendere una lezione da tutto ciò”. E proprio le dure lezioni ricevute in questi mesi hanno avuto l'effetto di mettere Google nelle condizioni di cercare però una svolta immediata. Va bene far tesoro dei propri errori, però, ragazzi, ora non esageriamo. Si capisce dunque come fosse importante trovare al più presto un terreno su cui puntare forte per il futuro. E quel terreno alla fine Schmidt l'ha trovato: si chiama telefono e, come vedremo, i numeri sembrano dare ragione alla vecchia volpe di Mountain View.
Ma all'origine di questa fase rivoluzionaria della vita della rete vi è senz'altro un aspetto trattato con intelligenza nell'ultimo numero della rivista Wired. Il tema occupa da giorni le prime pagine dei giornali di mezzo mondo ed è stato riassunto con una formula efficace dal direttore del mensile americano: “Il Web è morto. Viva il Web!”. C'è chi ha rapidamente liquidato l'accattivante copertina scelta da Chris Anderson ficcandola nel cassettino delle “provocazioni culturali”. Ma in realtà se Google e Verizon sono arrivate al punto da richiedere in modo ufficiale l'inizio di una nuova era del Web – con tutte le conseguenze che questo ha portato all'immagine delle due società – significa che in un modo o in un altro si sta davvero discutendo della possibilità che un'altra era si stia davvero concludendo. E lo storico patto tra Google e Verizon nasce proprio da questo passaggio epocale.
In sostanza, Wired sostiene che il Web sia diventato un mondo in cui si naviga meno per cercare le cose che ci interessano e in cui si preferisce affidare il proprio tempo ad alcuni aggregatori specifici a cui noi deleghiamo la nostra selezione del sapere: non sono dunque più io a collegarmi alla rete per scovare qua e là qualcosa che possa interessarmi ma sono piuttosto le applicazioni – come Facebook, Twitter, TweetDeck, Google Reader e Friendsfeed e come tutte le apps di Apple – che ci offrono quotidianamente le informazioni di cui abbiamo bisogno. E' evidente: si tratta di una nuova fase di crescita – diversa da quella originaria in cui si perdeva molto tempo a cercare sulla rete tutte le cose di cui si aveva bisogno – che secondo Anderson costituisce la vera maturità del Web. “When you are young – ha scritto il direttore di Wired – you have more time than money. As you get older, you have more money than time” (quando si è giovane si ha più tempo che denaro, quando si è più grandi si ha più denaro che tempo).
Il miglior esempio per capire le nuove tendenze adottate dagli utenti del Web è probabilmente nascosto in un dato pubblicato qualche mese fa da una importante società di statistiche della rete: Compete.com. Ebbene: nel 2001 i primi dieci siti più visitati degli Stati Uniti raccoglievano qualcosa come il 31 per cento del traffico quotidiano del Web; mentre nove anni dopo quel 31 per cento si era trasformato in un clamoroso 75 per cento. Significa che oggi i naviganti sono meno confusionari nella scelta dei contenuti da visualizzare su Internet e che ormai, invece di perdersi in sterminate ricerche lungo le strade del Web, scelgono di andare sempre più a colpo sicuro, affidandosi a strumenti che a noi fanno risparmiare tempo e che alle grandi aziende fanno fare grandissimi affari. “That it's easier – sostiene Anderson – for companies to make money on these platforms only cements the trend” (è più facile ora per le aziende fare soldi attraverso queste piattaforme in cui si sono concentrati i principali trend).
Nelle prossime settimane, vedrete, si continuerà a spettegolare parecchio su Google e non solo per ragioni commerciali: a breve usciranno i dettagli del film che Michael London e John Morris hanno intenzione di girare sulla storia dei fondatori di Google e giusto ieri è stata confermata la notizia che i due produttori hanno acquistato i diritti cinematografici del libro “Googled: The End of the World as We Know It” scritto lo scorso anno dal giornalista del New Yorker Ken Auletta. E proprio Auletta è stato uno dei primi a notare che c'è una ragione precisa se tra i tanti investimenti realizzati negli ultimi anni (dal 2001 a oggi Schmidt ha acquistato qualcosa come trenta compagnie) alla fine Google ha deciso di puntare forte proprio sul mondo della telefonia. Google, si sa, crede moltissimo nel mercato del mobile (inteso come smartphone e inteso naturalmente come tavolette tipo iPad) e fino a oggi i dati sembrano avergli dato ragione: è qui che si giocherà il futuro del business delle nuove tecnologie e in questo futuro Google sembra essere partito con il piede giusto. In pochi se lo ricordano, ma nel mercato del mobile – cresciuto nell'ultimo anno al ritmo record del più tredici per cento – Google si sta muovendo da tempo. A metà del 2009, Schmidt ha presentato un sistema operativo fatto apposta per i cellulari di nuova generazione (Android) e alla fine di quest'anno il processore ideato da Google andrà a occupare il 24 per cento del mercato globale: una cifra quattro volte più grande rispetto a quella detenuta appena un anno fa. Non basta: nel marzo del 2010 Android è diventato il secondo sistema operativo per smartphone più diffuso al mondo (i server di Google ricevono circa 200 mila richieste di attivazione ogni giorno) superando clamorosamente il numero di dispositivi attivati nell'anno da Apple con l'iPhone.
Tutti numeri che hanno incoraggiato Google a imboccare con decisione la strada del mobile anche per tentare di tenere testa ai grandi rivali di Apple. E nell'appassionante sfida combattuta ormai da anni da Eric Schmidt e da Steve Jobs l'ultimo colpo di fioretto è previsto tra poche settimane, quando Google (assieme al nuovo partner Verizon) tirerà fuori dal cilindro una sorpresa che la Apple avrebbe preferito non ritrovarsi di fronte così presto. Segnatevi anche questa data: venerdì 26 novembre, black friday; primo giorno di saldi invernali, primo giorno di shopping natalizio e soprattutto primo giorno della nuova era del prossimo gioiellino a forma di tavoletta creato dal motore di ricerca più famoso del mondo. Ora segnatevi pure questo nome: GooglePad.
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